SANTE E NICOLOSA

Da un pettegolezzo di corte del 1450

1. Un nuovo Signore a Bologna


Lo Stemma dei Bentivoglio sul rovescio di una medaglia d’epoca

 


 Sante ritratto
ancora giovinetto dal Vasari

Lo stemma dei Bentivoglio, fiamma rossa a cinque punte su campo d'oro, aveva definitivamente vinto e per sempre.

L’uomo venuto da lontano aveva preso in mano le redini della sua antica famiglia con tale autorità, decisione e capacità, che nel giro di appena un mese ai Bentivoglio era stato assicurato il dominio incontrastato su tutta la città; si realizzava così per loro e con la velocità di un fulmine, quel sogno che in cinquant'anni di lotte, era stato foriero solo di sangue ed immani tragedie.

Nota 1

Sante era nato, in anno non precisato (1423 ?), a Poppi, in provincia di Arezzo, da una relazione fra suo padre Ercole Bentivoglio e la moglie di un certo Agnolo da Cascese commerciante di lane; Ercole era figlio di Giovanni, primo esponente della famiglia ad assumere la signoria di Bologna, anche se solo per due anni (1401-1402).

Giovane, intelligente, di cultura fiorentina, elegante come si addiceva ad una persona che aveva frequentato la corte medicea, Sante Bentivoglio (nota 1) rappresentava un «ottimo partito» e non v’è da meravigliarsi se una volta proclamato e proclamatosi Signore di Bologna, ogni nobile famiglia organizzasse feste e intrattenimenti mondani in suo onore, con la speranza nascosta - ma poi non tanto! - di vedere prescelta come sposa una consanguinea.

Ma Sante, oltre che un ottimo politico, era anche un tipo del tutto particolare e ben poco sacrificava di sé alla ragion di stato. Sì, sapeva anche lui che non avrebbe potuto che impalmare una donna atta a portargli in dote, più che il denaro, la tutela di una famiglia potente che lo aiutasse a governare in serenità, ma in tutte le cose e specie quelle che coinvolgevano la sua vita personale, occorreva dar tempo al tempo. Senza contare che per lui, l'amore disinteressato, l'amore che nasceva unicamente dal reciproco piacere dello stare insieme, l'amore per l'amore, insomma, lo aveva sempre affascinato, fin da quando, ancora giovanissimo, a Poppi, nel Casentino, preferiva la sincera compagnia di una bella contadina con gli occhi neri, alle subdole lusinghe di una altrettanto bella madonna fiorentina.

  

Notabili Bolognesi del ‘400
(stampa del Mitelli)

Alle feste, quindi, Sante andava più per onere politico, che per il piacere della vita mondana e, per quanto si guardasse intorno per

vedere quale fra le donne che lo circondavano poteva suscitargli un vero interesse, rimaneva sempre deluso; le poche che lo avrebbero potuto attrarre, non riuscivano a nascondere (e forse non lo volevano neppure) il loro vero scopo, quello di avere un principe come sposo e non come innamorato; e così esse, invece di intrattenerlo con le cose ch'egli avrebbe voluto sentir dire da una donna di spirito, lo annoiavano con l'elenco delle proprietà, l'esaltazione della ricchezza, il blasone degli stemmi.


Dama del ‘400

Per la verità, durante una importante festa a casa Pepoli, c'era stata una dama che aveva attirato l'attenzione di Sante in modo del tutto particolare, ma era mancata l'occasione per avvicinarla e conoscerla meglio. Si trattava di una donna bellissima, il cui aspetto, solo apparentemente altero, invece di porre un limite al suo fascino, lo valorizzava. Era di un'eleganza incredibile, un'eleganza che Sante non aveva mai visto, neppure alla Corte medicea a Firenze. I1 suo portamento, seppure adorno di gioielli ricercatissimi, arricchito da broccati preziosissimi e da scarpette interamente coperte di perle, era così disinvolto da non far affatto pesare, specie alle altre donne, la sua superiorità in fatto di bellezza ed eleganza.

Era accompagnata da una persona molto anziana che Sante notò solo di sfuggita. I1 cerimoniere annunciò: «I1 Senatore Signor Nicolò Conte de' Sanuti con la moglie Donna Nicolosa.»

Alla presentazione, lei aveva fatto una riverenza e restando a capo chino gli aveva detto, semplicemente ma con grande sincerità: «Considerami, Principe, come un'umile donna che ti ammira.»

«L'ammirazione è mia - aveva risposto Sante - E sono convinto che, a Bologna, giungo buon ultimo ad esprimerla.»

Con un sorriso tenue, quasi impercettibile, Nicolosa si allontanò con l'anziano marito e Sante la segui con lo sguardo. Poi, il sopraggiungere di altri importanti personaggi, la loro presentazione, lo scambio di omaggio e complimenti, gli fecero dimenticare la donna, ma solo per un momento. La bellezza di Nicolosa gli era rimasta impressa e aveva trovato posto in un piccolo angolo del suo cuore.


Giovanni I
(Incisione d’epoca)


Annibale
(scultura di Nicolò dell’Arca)

Anton Galeazzo scolpito sulla sua tomba
in San Giacomo, da Jacopo della Quercia

2. Un invito a cena

Nota 2

Anton Galeazzo era fratello di Ercole e, quindi zio di Sante. Fu il secondo Bentivoglio ad avere posizione egemonica in città, prima nel 1420, poi dopo alterne vicende, nel 1435 anno in cui fu fatto uccidere dal Governatore papale su istigazione dei Canetoli.

Curvo sulle spalle, eternamente appoggiato ad un bastone, con una lunga barba bianca che si congiungeva ad una folta capigliatura anch'essa candida, con occhi vivi di serena intelligenza, il nobile Nicolò Sanuti aveva superato, e di molto, i sessant'anni e li dimostrava tutti.

Era sempre stato un fidato amico dei Bentivoglio, fin da quando, ancora ventenne, aveva assistito alla loro lenta e sanguinosa affermazione in città. Aveva visto Giovanni, il nonno di Sante, linciato dalla folla in piazza; aveva vissuto la morte di Anton Galeazzo (nota 2), fatto uccidere in Palazzo Re Enzo, e aveva assistito alla lotta fra Canetoli e Bentivoglio con la morte di Annibale (nota 3).

Nota 3

Annibale era figlio di Anton Galeazzo e, quindi, cugino di Sante. Più che una signoria, il suo potere a Bologna fu piuttosto una egemonia ed ebbe a durare con alterne vicende dal 1433 al 1445, anno in cui venne ucciso da Baldassarre Canetoli a seguito di un tranello tesogli assieme a Francesco Ghisileri.

GENEOLOGIA DEI BENTIVOGLIO, SIGNORI DI BOLOGNA

 

 

Giovanni I

à

(n. 1360 ca. – m. 1402)
Figlio di Antoniolo
Signore dal 1401 al 1402

 

 

(n. 1390 ca. – m. 1435)
figlio di Giovanni I
Signore nel 1420 e nel 1435

ß

Antongaleazzo

 

 

 

 

 

 

Annibale

à

(n. 1412 ca. – m. 1445)
Figlio di Antongaleazzo
Signore di Bologna nel 1445

 

 

(n. 1426 –  m. 1463)
Cugino di Annibale
Signore di Bologna dal 1446 al 1463

ß

Sante

 

 

 

 

 

 

Giovanni II

à

(1443 – 1508)
Figlio di Annibale
Signore di Bologna dal 1463 al 1505

 

 

(n. 1469 –  m. 1540)
Figlio di Giovanni II
Signore di Bologna nel 1510

ß

Annibale II

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Contrariamente però, a quanto fatto dalle altre famiglie di pari nobiltà, era sempre rimasto in disparte, non entrando mai nell'agone politico e non per viltà o, peggio, per ignavia, ma perchè il suo carattere era più idoneo a consigliare un pacifico compromesso, che appoggiare una qualsiasi rottura di rapporti; per cui, senza farsi dei nemici - ma neppure dei veri amici - aveva vissuto sempre meglio, aumentando le sue già notevoli ricchezze, specie di tipo immobiliare nel rione di San Procolo, non perdendo mai il proprio posto nel Senato ed acquisendo anche qualche utile carica politica. Non era quindi mancato ai festeggiamenti che furono fatti in onore di Sante ritornato a Bologna, ma, a differenza di tutti, più che partecipare, si era limitato a presenziare: non si era, cioè, fatto avanti, non aveva preteso posti di riguardo, non aveva colto alcuna occasione per abbordare il nuovo principe con l'usuale utilitaria cortigianeria; e proprio per questo Sante l’aveva notato e, in definitiva, preso in simpatia.

Fu durante una riunione in Comune, molto tempo dopo, che Nicolò per la prima volta si rivolse a Sante:


Case piccole-borghesi di Bologna
(da una rilevazione catastale del ‘600)

«Signore - gli disse con garbo - vorrei che tu non credessi ch'io non voglia riceverti in casa mia, avendo finora mancato al dovere d'invitarti, come ormai tutti hanno da tempo fatto. Non credo che nè l'amicizia, nè il rispetto, nè la fedeltà di un uomo al suo principe si possano misurare con gli obblighi formali e non sentiti. Prima di invitarti a casa mia, ho voluto conoscerti a fondo. Se come uomo, prima che come principe, tu non avessi soddisfatto le speranze che riponevo in te, mai ti avrei chiesto di entrare a casa mia. Nè lo chiedo ora; sappi però ch'essa è sempre aperta per te ed in qualunque momento tu lo voglia, sarò lietissimo di averti come amico vicino al calore del mio focolare.»

«Nicolò Sanuti - rispose Sante - dopo quanto m'hai detto, l'ospitalità che mi offri, non è più un tuo dovere, ma un mio graditissimo obbligo. Sarò con te e da te appena finita questa riunione. Andremo insieme a casa tua e sarò onorato di reggere quel braccio che tanta fedeltà ha dato ai Bentivoglio fin dal tempo di Giovanni. Dio l'abbia in gloria!»

Per la verità Sante attendeva da tempo l'invito a casa Sanuti ed era impaziente di riceverlo, ma non certo per ottenere un ulteriore riconoscimento della sua posizione egemonica, bensì perchè non aveva mai dimenticato Nicolosa Sanuti da quel giorno in cui gli era stata presentata; questa era l'occasione buona per conoscerla meglio e, perchè no?, per verificare fino a che punto - e soprattutto in che modo - anche lei lo ricordasse.

3. La nascita di un amore

«Avvisa Nicolosa che abbiamo ospite Sante Bentivoglio e fa approntare tutto il necessario perchè il signore di Bologna sia trattato come il suo rango richiede.»

I1 servo così comandato da Nicolò Sanuti, si allontanò di corsa su per le scale, mentre il padrone, appoggiandosi al bastone e sorretto dal braccio di Sante entrava in casa lentamente e a fatica.

I due si accomodarono in una bella sala del primo piano, sedendosi davanti ad un caminetto, su due seggiole a schienale alto damascate in rosso.

«La mia casa e modesta - spiegò Nicolò - ma questi pochi anni di vita che mi restano voglio dedicarli interamente alla costruzione di un nuovo palazzo. Non grande, non c'è ragione, ma bello quel tanto da tramandare ai posteri e degnamente, il nome dei Sanuti.»

«Strano - si sorprese Sante - come i nostri progetti siano simili. Anch'io innalzerò un nuovo palazzo. I Bentivoglio sono signori di Bologna e non possono vivere ancora in una dimora tanto umile quale è quella di adesso. Vedremo quale sarà dei due il più bello: il mio o il tuo.»

«Un Sanuti che compete con Sante Bentivoglio, troppa grazia!»

I1 dialogo fu interrotto dall'aprirsi di una porta. Nicolosa entrò.

«Sono onorata - disse chinando il capo - di avere in questa casa il signore di Bologna e voglia il cielo che la tua inattesa venuta non ti sia resa sgradita dall'impossibilità di prepararci adeguatamente a riceverti come è obbligo.»

«Se ebbi a creare un sia pur piccolo imbarazzo, ti chiedo venia, donna Nicolosa. È sufficiente la tua presenza per rendere ogni cosa perfetta e gradita.»

«Mio signore, se quel che dici lo pensi davvero, troppo orgoglio nascerebbe in me. Se non lo pensi, diventerei un'illusa. Vedi dunque che in me, come in chiunque, non c'è perfezione e le tue stesse parole mi rivelano i miei difetti.»

«Nè orgoglio nè illusione, donna Nicolosa: accogli le mie parole per quello che sono, e non fraintendere lo spirito che le muove.»

Contrariamente a quanto si possa pensare, queste frasi, che dette da altri in medesime circostanze, sarebbero state solo aride formalità e sostanzialmente false, erano in Sante e Nicolosa quanto mai spontanee. Indubbiamente, di ciò, era complice la simpatia che già maturava fra i due giovani, ma anche se così non fosse stato, il dialogo non sarebbe stato diverso, tanto era il loro rispetto reciproco, suscitato in Sante dalla bellezza e dallo spirito di Nicolosa e in Nicolosa, dalla personalità e dal fascino di Sante.

Di ciò se ne avvide anche il vecchio Nicolò.

«Siete entrambi giovani, entrambi belli, entrambi affascinati l'uno dall'altra. So bene il pericolo che come marito io sto correndo, ma contro la realtà delle cose nulla si può opporre, se non il sereno accoglimento degli eventi. Eventi che credo non siano di danno alla mia onorabilità, perchè credo alla fedeltà di Nicolosa ed all'onesta amicizia di Sante. Siate prudenti, quindi e non fatevi travolgere insensatamente da una simpatia che recherebbe danno, più che a me, a voi, veri signori di Bologna, l'uno per potere e per ricchezza, l'altra per bellezza ed eleganza. Ma ora andiamo a mangiare, che tutto dovrebbe essere pronto. Dammi il tuo braccio, Nicolosa e guida entrambi alla tavola.»

Nicolosa stette a capo chino. Era orgogliosa delle parole del marito, ma nello stesso tempo sorpresa ed umiliata dalla loro pacata franchezza. Anche Sante fu colpito da esse, tanto da rimanere silenziosamente impacciato. Non sapeva ancora se l'attrazione che provava per la donna era già amore o se lo sarebbe diventato presto, ma era sicuro che comunque sarebbe stato un sentimento difficile e ciò a causa della disarmante, semplice ed umile tranquillità con cui Nicolò, apertamente e senza mezzi termini, gli aveva affidato il rispetto e l'onorabilità dei Sanuti.

4. Al mercato della Seta

«Ho bisogno di vederti e di parlarti - diceva la lettera di Sante - Vieni oggi a mezzogiorno al mercato della seta. Li io sarò e l'incontro casuale non desterà sospetti. Ti prego, non mancare.»


Il mercato della seta di Bologna che si svolgeva sull’attuale piazza Galvani
(Incisione del Mitelli)

Nicolosa non mancò e accompagnata da due damigelle giunse da porta Procula proprio mentre il campanile di una chiesa suonava il dodicesimo rintocco. Dall'altra parte arrivò anche Sante, scortato da numerosi armati, normale protezione per chi, come lui, aveva da poco raggiunto il potere ma non l'aveva ancora definitivamente consolidato.

Non fu facile per i due avvicinarsi ed incontrarsi: Nicolosa era trattenuta dalle serventi che ad ogni banco del mercato si fermavano per ammirare, mostrare e toccare la merce; Sante era ad ogni passo impedito nel cammino, nonostante gli sforzi della scorta, da peroranti che gli presentavano suppliche, da mendicanti che richiedevano un obolo, da mercanti che volevano a tutti i costi mostrare la propria roba al Signore di Bologna.

Infine furono l'uno di fronte all'altro. Nicolosa riverì Sante subito imitata dalle sue fantesche. E Sante chinò il capo.

«Piacere di rivedervi, Donna Nicolosa. Buone spese al mercato?»

«Non ho ancora visto nulla di interessante... »

I1 dialogo era il più banale possibile, ma le cose che avrebbero voluto veramente dirsi se le scambiavano con gli occhi e con quel sesto senso che solo gli innamorati hanno e sanno comprendere.

All'improvviso, Nicolosa estrasse la borsa e dette alcune monete alle sue ancelle :

«Andate a scegliervi il tessuto dal mio solito fornitore. Non esagerate in colori sgargianti. Ricordatevi che il più bel ornamento di una donna è il proprio buon gusto.»

Le due, tutte contente, ringraziarono la padrona e si allontanarono quasi di corsa.

Toccò ora a Sante liberarsi della scorta e crearsi attorno un isola tranquilla per parlare con Nicolosa:

«Volete tener lontana tutta questa masnada? Siete le mie guardie o sensali che lasciano passare chiunque voglia venire al mio cospetto? Fatemi largo attorno o questa sera non vedrete paga.»

Seppure con centinaia di persone attorno, ora Sante e Nicolosa erano soli, perchè liberi di parlarsi e dirsi ciò che volevano senza che altri potessero udire. Non occorre qui dettagliare un dialogo fatto di parole che qualunque innamorato ha detto e si è sentito dire. Per loro però c'era un aspetto quanto meno inedito, rappresentato da quella frase di Nicolò che li aveva inchiodati ad un impegno che, seppure non riaffermato a viva voce, sia Sante che Nicolosa aveva intimamente assunto.

L'amore, però, è una brutta bestia per chi vorrebbe evitarlo, pur sapendo di non poterlo fare. E così i due, proprio in quell'incontro in mezzo alla folla, iniziarono la loro intimità, col comprendersi e reciprocamente scusarsi per non poter più rispettare la parola data a Nicolò. E ciò fu tutt'altro che difficile.

L'amore, come sempre, aveva vinto (ma è poi vittoria, questa?) sia sulla fedeltà, sia sulla riconoscenza, sia sull'onestà, sentimenti questi che gli sono estranei di natura, perchè contrastanti con la sua voglia di libertà assoluta.

Dalla piazza, gli incontri si trasferirono ben presto in luoghi meno fastidiosi, per finire poi in una palazzina appositamente fatta allestire da Sante in rione San Donato, vicino cioè al quartiere dei Bentivoglio e lontana da Casa Sanuti.

5. Fra amore e potere


Notabile Bolognese del ‘400
(trattasi di Ludovico Marescotti ritratto in un medaglione del ‘400

Il vecchio Ludovico Bentivoglio era la mente grigia della famiglia. Era stato il consigliere di Annibale durante la sua breve signoria ed era diventato il reggitore della fazione bentivogliesca, dopo la sua morte nella guerra contro i Cantoli assassini. La scelta di Sante a nuovo capofamiglia era stata sua, come suo era stato il compito di aggiornarlo sulle vicende di Bologna, sulle necessità politiche dei Bentivoglio e sui problemi più immediati da risolvere per evitarne dei maggiori in futuro. Ovvio, quindi, che il nuovo Signore di Bologna avesse un grande rispetto dei suoi consigli e delle sue valutazioni, per cui quando gli si presentò dicendo in modo ben poco formale: «Ho da parlarti da solo», ebbe subito la sensazione che vi fosse sul tappeto una que­stione di non poco conto.

Fatti uscire tutti dalla sala, Sante chiese subito che succedeva.

«Succede che il signore di Bologna non può farsi come amante la moglie del suo più fido alleato.»

Sante si alzò, allargò le braccia come dire «e che ci posso fare?» poi si mise a camminare su e giù per la stanza. Ludovico continuò:

Nota 4

Dopo una prima alleanza con i Bentivoglio, famiglie queste già nel 1446 ne avversarono la signoria, tanto da unirsi ai Canetoli (detti anche caneschi, atavici nemici dei bentivoglieschi) per detronizzare Sante.

«Pazienza se si fosse trattato di un Pepoli o di un Vizzani o anche di un Malvezzi (Nota 4), di quelli non ci si può certo fidare e tanto vale rompere subito, ma con i Sanuti, con Nicolò Sanuti, questa è una pazzia! E non dico tanto per i rapporti fra noi e lui, ma per l'esempio che dai alle altre famiglie che ci sono amiche.»


Nobile anziano
A. Carracci, “La predica del Battista” (particolare)

«Tu hai ragione, Ludovico, e credimi che l'unico rammarico che ho è proprio quello di aver tradito quel povero vecchio. Certe volte lo vedo ancora quando con una saggezza quasi profetica, mi disse che io e Nicolosa avevamo diritto di diventare amanti, ma che contava sulla nostra onestà perchè ciò non accadesse. Ma, diamine! Anche tu avrai amato nella tua vita, anche tu saprai cosa si prova... Dio mio, se essere signore di Bologna significa abbandonare l'affetto della donna che amo, ma che ci faccio io qui, in questa casa, a capo dei Bentivoglio?»

«Non dire fesserie! Ci sei e ci devi stare! E qui sta il punto devi lasciare Nicolosa...»

«Lasciare Nicolosa? Non ci penso neppure!»

«E invece è necessario! Sante, ti devi rendere conto che la tua vita privata è sempre e comunque pubblica: sei il signore di Bologna e solo la morte ti può togliere questo titolo. E poi, non c'è mica solo Nicolosa, su questa terra! Tutti i Bentivoglio hanno avuto delle amanti, anche tuo padre, e con profitto, se è vero che da una di esse sei nato tu! Ma scandali non ne hanno mai suscitati. Del tuo rapporto con Nicolosa, invece, se ne parla e come, e non certo bene.»

«Lasciami qualche giorno per pensare, Ludovico, poi vedrò quale decisione adottare.»

«Qualche giorno va bene ... ma la decisione non può essere che una: liberarti di quella donna!»

Ludovico uscì dalla stanza e Sante guardò i ritratti dei Bentivoglio che facevano bella mostra di sè sulla parete di fronte. Valeva la pena tanto lignaggio, tanta gloria, tanta tradizione, se si perdeva per essi l'unica cosa importante della vita?

Ma come spesso accade, il destino, favorevole ad alcuni ed impietoso per altri, sciolse quel dilemma, permettendo all'amore di Sante per Nicolosa di continuare.

6. La morte di Nicolò

Sul letto di morte Nicolò Sanuti aveva ormai la sorte segnata in volto. La vecchiaia, malattia contro cui non è possibile combattere, stava conclu­dendo la sua stagione: dopo di essa, o solo il nulla eterno, come qualche ere­tico sosteneva, o il giudizio di Dio, come gli aveva detto il sacerdote.


Pietra tombale del ‘400
(S. Giovanni in Monte)

Il nobile morente si era confessato e comunicato; teneva in mano il rosario e pensava…. A cosa? A tutto e a niente. Erano pensieri che si accavallavano e si incrociavano, agganciandosi l'uno all'altro, senza alcun criterio: gli affari compiuti e quelli rimasti in sospeso; le tante soddisfazioni avute e le poche cose negative subite; i suoi viaggi vicini e lontani; la sua gioventù e la sua maturità; il tanto sangue che aveva visto scorrere in periodi tremendi e le poche paci che aveva goduto in serenità... Ma due pensieri erano quelli che più ritornavano alla sua mente in questo caotico ammassarsi di ricordi: Nicolosa, che tanto amava e il Palazzo che voleva costruire ma che non avrebbe mai visto realizzarsi.

La moglie gli stava seduta accanto in preghiera.

«Nicolosa - la chiamò con voce stranamente chiara per lo stato in cui si trovava - stammi ad ascoltare...»

«Dimmi, mio sposo,»

«La tua giovinezza e la tua bellezza troveranno nuovo vigore dalla mia morte, perchè potranno librarsi altrove senza il vincolo che questo vecchio corpo rappresenta per te. Ciò mi rende felice. Sarebbe stupido illudersi e pensare che il tuo matrimonio con me sia stato felice: tu sì mi hai dato felicità, ma in cambio nulla hai avuto se non la serenità di un vecchio. Ben poca cosa, invero...»

«Nicolò...

«Nulla ho da rimproverarti. Le tue continue attenzioni, il tuo vivere gaio, il tuo sincero affetto nei miei confronti (vedi che non lo chiamo amore?) hanno reso la mia ultima stagione sopportabile. Non ho mai preteso da te l'amore, nè la fedeltà: sono cose queste riservate ad altri che non a un vecchio, ma anche questo tu m'hai dato, almeno finchè non è giunto Sante.»

«Dio mio, tu sai?»


Particolare della tomba
di S. Domenico
(Nicolò Pisano)

«Oh se lo so, Nicolosa, e non perchè mi giunse un pettegolezzo od una denuncia, ma dal cuore, dal mio cuore, dalla conoscenza che ho della vita. Ma non ho provato dolore, credimi, per questa tua naturale passione, nè avrei voluto in alcun modo, impedendola o contrastandola, recarti una benchè mi­nima infelicità. Ho voluto col mio silenzio ringraziarti concretamente della gioia che mi hai dato occupando il posto di moglie in casa mia. Ora che la morte si avvicina il mio silenzio non ha più senso, e se proverai dolore da questa mia rivelazione sarà solo per un attimo... La libertà di amare cancel­lerà ben presto ogni traccia di me nel tuo cuore ed io, questa volta veramen­te, nulla più sarò per te.»

«No, Nicolò, non è così. Tu mi sei caro e mai potrò scordare ciò che mi hai dato nella vita.»

«Non so se sarà così, Nicolosa, e d'altronde la cosa ha ormai poca importanza per me. Ma una cosa c’e che desidero da te, e vorrei tanto un tuo giuramento su di essa.»

«Sì, lo giuro, lo giuro davanti a Dio adesso, subito, sia pure non sapendo cosa tu mi chiederai.»

«Voglio che il mio palazzo, quello che da tempo sogno, sia portato a termine. Ci sono i soldi, ci sono già i progetti, ci sono le mie indicazioni scritte; ma non t'impongo nulla: fallo come tu consideri meglio, secondo il tuo senso della bellezza, i tuoi gusti, le novità dell'arte che s'imporranno man mano che il tempo passerà. Ma fallo bello, bellissimo... che sia il più bello della città...

Con gli occhi sognanti che vedevano il suo palazzo, e con la mano stretta in quella di Nicolosa, Nicolò Sanuti morì serenamente.

7. Si erigono splendidi palazzi

Sembrò a questo punto che niente e nessuno potesse più ostacolare l'amore di Nicolosa e Sante, anzi, esso sarebbe dovuto diventare più bello, perchè entrambi erano finalmente liberi di esprimerlo, nè le malelingue, gli invidiosi e gli arrivisti avrebbero avuto alcunchè da opporgli se non rivangando - ma con quanto labili argomenti! - il momento e il modo in cui era nato.

Ma non fu così.

La politica, a chi l'assume con la consapevolezza di ben agire, divora tempo e sentimenti, senza lasciar spazio alcuno alla vita privata. Sante, fra le mansioni di Gonfaloniere di Giustizia e quelle di tutore del vero erede dei Bentivoglio, Giovanni Il; fra l'arduo impegno di riappacificare le famiglie bolognesi, scosse da quasi un secolo di lotte civili, e quello di instaurare nuovi rapporti con la Chiesa, che da sempre rivendicava la sua potestà su Bologna; fra il debellamento dei feudatari delle rocche che circondavano la città minacciandola con continue scorrerie, ed i sempre incombente attriti con le altre Signorie, specie Milano; Sante, insomma, amante del suo quieto vivere e della sua libertà individuale, non potè mai goderne ed a causa di ciò, anche il rapporto con Nicolosa venne, se non deteriorato, senz'altro reso meno felice.


Costruzione di edificio medioevale
(rielaborazione di una miniatura d’epoca)

Si amavano ancora e appassionatamente, questo è vero, ma l'impossibilità di vedersi e frequentarsi come il loro desiderio richiedeva, ne affliggeva il rapporto, tanto che anche Nicolosa, dovette trovare in altre faccende il modo di dimenticare la sofferenza che la mancata vicinanza dell'amante gli procurava.

E Nicolosa si dedicò completamente alla costruzione del Palazzo Sanuti, che cresceva sempre più bello gareggiando in gusto e stile con quello altrettanto splendido che Sante stava erigendo per i Bentivoglio.


Palazzo Sanuti

Nota 5

Trattasi dell'attuale Palazzo Bevilacqua, in via d'Azeglio, uno dei massimi esempi dell’architettura quattrocentesca di Bologna, e non solo.

Nota 6

Il palazzo, opera del toscano Lapo dei Portigiani, venne distrutto nel 1511 dai Marescotti, dopo la seconda e definitiva cacciata dei Bentivoglio dalla città. Sorgeva nell'area dov’è ora il teatro comunale ed il giardino retrostante, di via del Guasto. Guasto é appunto la terminologia medioevale per indicare le rovine di un edificio abbattuto per rivalsa politica degli avversari.

 


Palazzo Bentivoglio
in un disegno coevo

Palazzo Sanuti (nota 5)aveva una linea contenuta, quasi vergognosa di mo­strarsi, una raffinatezza che solo l'occhio di gusto più esperto poteva notare in tutta la sua eleganza. Non aveva portico ed il bugnato esterno sembrava voler nascondere come in uno scrigno trapuntato di velluto le splendide architetture interne. Solo un balconcino, piccolo e delizioso, apriva uno spiraglio sulla strada, ma unicamente per guardarvi fuori, non certo per permettere ad altri di penetrarne gli intimi segreti. Fra insomma coma l'amore di Nicolosa, riservato e umile, restio ad esplodere all'esterno, ma tanto, tanto vero e splendente nel suo intimo.


Palazzo Bentivoglio in una ricostruzione ottocentesca

Palazzo Bentivoglio (nota 6), al contrario, voleva essere l'emblema di una grandezza nascente, l'esplosione scenografica di un'egemonia stabile e peritura, una vera e propria “domus aurea” da esibire a tutti: ricchi e poveri, nobili e plebei, mercanti e artigiani, passanti ed artisti. Progettato da uno dei massimi architetti dell'epoca, era la dimora del Principe e, come tale, esaltava una linea sfarzosa al massimo con un portico a diciannove colonne, un pri­mo piano con quindici bifore di marmo; un secondo con eleganti finestre ad arco e infine, proprio sotto le merlature, piccoli rosoni simili ad occhi scruta-tori. All'interno le 244 camere erano decorate dai maggiori pittori bolognesi dell'epoca, vera e propria cantica all'arte rinascimentale della città. Nè mancava la torre, alta e agile, non più fortilizio di difesa, ma pennone di uno stemma gentilizio (quello della rossa fiamma) che imponeva a tutta la città la sua supremazia,

L'amore è pur sempre competizione: è l'egoistico dare per più ricevere; è lo scambio di gioia che aumenta proprio quando più la fai provare ad altri. E in questa fantastica competizione, Sante e Nicolosa, non si sa se per scelta voluta o se per incosciente ingenuità, trasferirono anche nell'arte la loro sim­biosi, così che, pur nelle differenze dei due edifici, il cortile interno di Palaz­zo Bentivoglio ricopiava (o fu viceversa?) quello di Palazzo Sanuti, ed identici erano i fregi dei loggiati.

8. Ginevra Sforza


Ginevra Sforza, ritratta
dal Cossa

E venne il momento in cui l'amore dovette cedere il passo ad eventi più grandi di lui.

Nel maggio del 1454 giunse a Bologna una giovinetta di appena quattordici anni: si chiamava Ginevra, veniva da Pesaro ed era della famiglia dei potentissimi Sforza di Milano. Era la sposa di Sante, non quella che lui avrebbe voluto poter scegliere, ma quella che la ragion di stato imponeva come pedaggio alla libertà di Bologna.

Nicolosa sapeva che non avrebbe mai potuto sposare Sante, nè mai l'aveva pensato. Ma quando vide che ciò ch'era impedito a lei era permesso ad un altra, non potè che commiserare la propria vita e sentirsi comunque messa da parte, posticipata ad una donna che mai avrebbe potuto dare al suo uomo ciò che lei per anni gli aveva dato.

Se prima, quando non esistevano vincoli, essa viveva l'amore con l'indispensabile libertà di poterlo esprimere appieno, ora ritornava ad essere l'amante di Sante, ne più ne meno di come lo era stata quando era ancora in vita Nicolò. Si sentiva insomma defraudata, anche se di una cosa che mai avrebbe potuto ottenere e il pensiero ditale posizione non più di privilegio, ma subalterna, fu per lei traumatico.

E fu così che Sante ricevette un messaggio di Nicolosa alla vigilia delle nozze.

 

Sante, mio padrone e signore,

altra donna occupa, se non nella tua anima, senz'altro al tuo fianco, il posto che per diritto d'amore è mio e che nessuno mi potrà mai togliere. Ciò è per me segno della fine di tutto quello che, seppur divisi, ci ha sempre uniti. E questo non posso sopportarlo.

Tu non hai colpa lo so, nè colpe ho io,. solo il Fato ha voluto così e, come gli antichi, io pure debbo chinare il capo all'incostante Dio che regola la vita umana e piangere. Senza di te che ho sempre amato, anche la vita non ha vita e resterebbe per me solo il soffrire, il sognare invano e lo sperare in ciò che ogni speranza esclude.

Mio Signore, padrone dolcissimo in amore, è giunto il momento di fuggire dalla tua vita e dai tuoi pensieri, e ciò non posso fare se non fuggendo la mia stessa vita ed i miei stessi pensieri. L 'ignoto che accompagnerà fra breve la mia morte, tutto potrà togliermi, fuorchè l'amore che ti porto.

Addio,

Nicolosa

 


Le Scuderie dei Bentivoglio, in piazza Verdi

Sante guardò un istante fisso nel vuoto, poi con uno scatto quasi da ossesso, appallottolò nel pugno la lettera e la gettò via. Corse affannato giù per le scale fino alle scuderie, mentre i servi che stavano addobbando il palazzo per le nozze del giorno dopo, lo guardavano esterrefatti. Balzò sul primo cavallo che trovò e, senza briglia nè sella, attraversò a galoppo sfrenato la città, da San Donato a San Procolo.

Giunse in San Procolo, davanti a casa Sanuti in pochi minuti. Battè forsennatamente alla porta. Gli attimi di attesa parvero eterni e quando il battente si socchiuse, lo spinse a forza, travolgendo il servo ch'era andato ad aprire. Attraversò il loggiato di corsa, fece i gradini della scalinata a tre a tre e irruppe nell'appartamento di Nicolosa. Attraversò il salotto e spalancò la porta della came­ra da letto.

9. L’amore sopravvive a tutto

Nicolosa era in piedi, affacciata alla finestra chiusa e gli volgeva le spalle. Su di un tavolino, vicino a lei, erano ordinatamente disposti calamaio, carta da lettera, penna, alcuni oggettini personali... ed un bicchiere d'argento ricolmo di liquido

Pensava Nicolosa veramente alle cose che aveva scritto nella lettera a Sante? Oppure era l'estremo tentativo di una donna innamorata di tenere stretto a sè il proprio amante? Oppure era un atto per verificare se in esso l'amore c'era ancora, nonostante tutto?

Queste domande non ebbero mai risposta, nè se le pose Sante, perchè per lui la lettera era sincera e quel bicchiere confermava tutta la risolutezza della decisione in essa espressa: Nicolosa voleva uccidersi per lui.

Ma di ciò non parlarono. Lui le si appressò da dietro e la abbracciò stringendola a se. L'atto amorevole era atteso dalla donna che, ad occhi chiusi, per meglio sentirselo addosso, sospirò di piacere, come se si fosse all'istante liberata da un ansioso abbattimento.

«Amore mio - le sussurrò Sante sfiorandole il collo con un bacio - che pazzia!»

Nicolosa tacque. Sempre stretta fra le braccia dell'amante, si girò e, prendendogli delicatamente il viso fra le mani, lo baciò come solo una donna innamorata può fare. Il tavolino fu urtato, il bicchiere cadde, perse il liquido e rotolando cadde a terra.

10. La festa in piazza ed il silenzio


San Giacomo Maggiore

Il giorno dopo, Sante sposò Ginevra. Tutta Bologna accorse in San Pietro per ammirare lo splendido corteo di donne e cavalieri che facevano corona alla cerimonia. Le strade erano parate a festa; archi di fiori, addobbi e luminare ornavano il tragitto che gli sposi avrebbero dovuto percorrere da casa Bentivoglio alla chiesa. Ma le porte del tempio erano sbarrate . Il Cardinale Bessarione, visto lo sfarzo delle nozze, i gioielli, lo sfoggio di vesti sontuose, gli ornamenti eccessivi, aveva interdetto il matrimonio, che fu celebrato in San Giacomo, chiesa prediletta dei Bentivoglio.

E così Sante obbedì ad un ordine che non poteva non accettare. La sua vera sposa era altrove, non affianco a lui sull'altare.

 Nella sua stanza Nicolosa piangeva. Piangeva anche se non aveva perduto Sante che rimaneva e per sempre il suo fedele innamorato.

Da quel giorno, nel Palazzo Sanuti, lo stemma di famiglia, una bianca ala in campo azzurro, cambiò: vicino ad essa, fu posta una canna infranta, indiscutibile emblema di un amore interrotto nel suo momento più bello.

FINE