MICHELE E MARGERETHA

Da un atto parrocchiale del 20 febbraio 1644

1. Un’epica battaglia


Il fiume Crimai. In Ungheria

Nota 1

Il nome del Reggimento è citato nell’atto parrocchiale che ha dato ispirazione a questo racconto. Null’altra indicazione si ha a riguardo.

Nota 2

Le località ungheresi qui indicate sono esistenti, mentre la vicenda dello scontro fra cristiani e islamici è pura fantasia dell’autore e serve a determinare lo strano connubio fra l’atto parrocchiale stillato a Bologna e quel lontano Paese.

Lo scontro fra il reggimento del Marchese Degli Oddi (nota 1) ed un avamposto di ottomani si era concluso e la piana di Csòngràd, in Ungheria, dove il fiume Crimai si immette nel Tibisco (nota 2), era disseminata di morti: tanti mussulmani, ma anche molti cristiani.

I soldati vincitori - austriaci, ungheresi, polacchi ed italiani, - ricomponevano i corpi dei propri commilitoni morti, non senza aver prima loro sottratto, come macabro bottino, le cose utili e preziose che avevano indosso. Poi una campana chiamò tutti a raccolta per una messa di ringraziamento a “Gesù Glorioso” e di suffragio a “Gesù misericordioso”. Nel silenzio della piana, quel mattino del 23 giugno 1661, al “Te Deum” dei cristiani faceva da sfondo e contrasto il rituale di un muezzin che da una non lontana collinetta innalzava la sua preghiera ad Allah.

Il piccolo esercito vincitore, dopo il rito, caricò i carriaggi, ricompose le proprie file e si mise in marcia verso oriente, alla ricerca di nuovi nemici e di nuove vittorie. Pian piano calò lenta la sera e sul luogo della battaglia dominarono il buio più impenetrabile, il silenzio più tragico e l'immobilità più assoluta. I corpi dei morti, lasciati li sul terreno con una semplice benedizione e senza sepoltura, cominciarono la loro lenta putrefazione.

Soldati del 1600

 

Nota 3

Nell’atto parrocchiale il nome è latinizzato in Michele Lindinem. E’ presumibile che il vero nome fosse Lindin e che quindi il personaggio fosse un ungherese. In sostanza l’aver trasformato in Bolognese un personaggio di altra nazione è stata una liberissima interpretazione dell’autore per sviluppare la storia.

Michele Lindini (nota 3) apri gli occhi e mosse appena la testa. Ricordò quel fendente di scimitarra che lo avrebbe senz'altro raggiunto al collo, se non fosse riuscito a frapporre d'istinto la sua spada, come estremo baluardo con­tro la morte. Sapeva che l'affilata lama araba l'aveva comunque raggiunto, ma al petto e con un colpo molto attenuato, quel tanto che era bastato a fe­rirlo di striscio e non profondamente e a tramortirlo, lasciandolo sul campo come morto. E tale, infatti, gli amici l'avevano creduto, abbandonandolo fra gli altri cadaveri.


Giannizzeri ottomani

Il dolore. assopito o non rilevato nelle tante ore in cui egli era rimasto privo di sensi, si era fatto all'improvviso lancinante e gli impedivano il movimento o, forse, ne era impedito da una debolezza via, via crescente. Si rendeva conto che, se non era morto, era in attesa della morte, una morte contro cui nulla poteva se non sentirsela in corpo nel suo lento progredire; quello stato d'impotente agonia gli fece rimpiangere di non essere morto durante la battaglia per il corpo secco della scimitarra che era riuscito ad evitare.

Era già rassegnato alla sua inevitabile fine, quando sentì sulla fronte un fresco ed umido contatto: un panno guidato da una mano sconosciuta lo stava accarezzando e là dove esso era fatto passare, la pelle sembrava acquisire nuova vita, riprendendo la sensibilità che ormai sembrava perduta.

Nonostante la sofferenza che gli avrebbe causato un sia pur minimo movimento, Michele girò la testa per tentare di vedere non tanto chi lo stava soccorrendo, ma se soccorso effettivamente vi fosse: accucciata accanto a lui c'era un'ombra, una forma indistinta che, abbandonato il panno umido sulla fronte, ora gli stava delicatamente aprendo la camicia, per pulire la fe­rita, non più sanguinante, ma raggrumata di sangue, terriccio e sudore. Il dolore che il giovane sentì, quando il petto gli venne lavato, fu tremendo, ma era un dolore sopportabile, diverso da quello precedente, perchè dovuto, questo, a un gesto benevolo che gli recava speranza.

Le tempie gli batterono con forza, il respiro affannoso divenne un rantolo faticosissimo, l'arsura in bocca gli aumentò e svenne nuovamente.

2. Le tragedie delle guerra

Nota 4

Margherita De Cravattis, come indicata in latino nell’atto parrocchiale.

Contrariamente al personaggio maschile, a cui l’autore ha attribuito un’origine bolognese, a quello femminile viene mantenuta la presunta dizione d’origine, ovviamente per ragioni narrative.

L’ombra indistinta che, accucciata vicino a Michele, l'aveva soccorso, era quella di Margaretha Kravattova (nota 4).


Schieramento militare nel XVII Secolo

La ragazza aveva visto alcune settimane prima la sua casa ed il suo villaggio assaliti dagli Ottomani; in quella barbara scorreria, aveva perso i genitori ed i fratelli e si era salvata (se non dalla morte certamente da una schiavitù inevitabile), perché in quel momento era lontana dal suo podere, in mezzo al bosco in cerca di legna.

Seppelliti senza pianti i suoi familiari, Margaretha aveva cercato da qual momento di sopravvivere, patendo più di ogni altro quella carestia che sempre, nei secoli, ha colpito la gente e i luoghi travagliati dalle guerre di occupazione e di conquista.

Nota 5

La data, pur se precisata con giorno mese ed anno, è libera invenzione interpretativa dell’autore.

Quel 23 giugno 1661 (nota 5), la giovane aveva assistito alla battaglia dietro alcuni cespugli ai margini del bosco ed aveva osservato tutti quei soldati che avanzavano per uccidere, retrocedevano per non essere uccisi, si scontravano per recare o subire morte. Aveva visto i cavalieri caricare, i fanti incrociare le spade, gli archibugi sparare. Tutto quel movimento solo apparentemente confuso, tutti quei colori sgargianti di bandiere, gualdrappe e divise, tutto quel fumoso schioppettìo dei fucili, l’avevano affascinata e quando vide l'ultimo atto della battaglia, sentì nel cuore una gioia ineffabile, data sì dalla sconfitta di coloro che le avevano massacrato la famiglia, ma soprattutto dalla vittoria in sé di una delle due parti che combattevano.

Questa sensazione di euforia durò solo un istante, perché in lei ebbe sopravvento la ragione per cui era li: aveva infatti pensato, guardando il combattimento, di attendere la notte e di cercare, fra i cadaveri, qualcosa di utile o di valore da poter barattare con un po' di farina, o con un pane o con della frutta. Le sarebbe bastato trovare un coltello, un pezzo di manto o un elmetto per soddisfare la fame dei giorni seguenti.

Quando si avvicinò a quel corpo, non avrebbe mai pensato che esso si rianimasse all'improvviso e l'ovvio spavento che subì - quantunque fosse consapevole che non esisteva alcun reale pericolo - la fece in un primo momento trasalire; poi nel suo cuore subentrò un dubbio: avrebbe dovuto lasciare quell'uomo lì, come lo aveva trovato, perché la sorte compisse il suo corso, oppure doveva cercare di soccorrerlo? La convenienza immediata le sembrava quella di proseguire la sua ricerca presso altri morti che fossero stati realmente tali, ma la sua innata carità l'obbligava a restare.

Margaretha restò accanto al ferito e lo curò. In fondo, quel soldato era uno di quelli che avevano vinto, uno di quelli che le avevano dato quell'attimo di gioia dopo tanto tempo di solitaria tristezza.

3. Un dialogo quasi impossibili

Per la prima volta da quando si erano incontrati, i due giovani si poterono reciprocamente guardare. Erano passati tre giorni da quella notte del 23 giugno e solo ora Michele aveva ripreso conoscenza; non poteva sapere che Margaretha l'aveva trascinato con immane fatica lontano dai cadaveri, sotto alcuni cespugli in riva al fiume e qui l'aveva curato, assistito e vegliato amorevolmente; si rendeva però conto che, se era ancora vivo, lo doveva a quella donna che ora, tenendogli la nuca lievemente sollevata, lo faceva bere.

«Chi sei? - le domandò con un filo di voce - Come ti chiami?»


La Cattedrale e la Reggia di Csòngràd

Dallo sguardo della ragazza Michele comprese che le sue domande non erano state capite e allora le ripeté spiccicando quel po’ di ungherese che aveva imparato dopo mesi e mesi di campagna in quella regione. Iniziò cosi un dialogo fatto di brevi monosillabi, vere pillole di discorso, ma non per questo meno espressive e comprensibili.

«Mi chiamo Margaretha Kravattova, e tu?»

«Michele, Michela Lindini, italiano.»

«Io sono nata qui a Csòngràd, ero contadina.»

«Anch'io lo ero a Bologna, poi la carestia mi trasformò in soldato.»

 «Ed io in una miserabile.»

«Grazie a te, vivo.»

«Qui a Csòngràd non si vive, si muore solamente...»


Bologna in una stampa della metà del 600

«Anche i soldati muoiono…»

«Ma prima vivono! Sei stanco?»

«Un po’... non tanto... da quanti giorni sono qui?»

«Tre... non muoverti!»

«Il mio reggimento dov'è?»

«Ha proseguito lungo il fiume il giorno stesso della battaglia... Non muoverti!»

«Devo raggiungerlo...»

Il corpo gli rispose solo con un gran dolore: la ferita ancora viva del petto, la debolezza dei muscoli, l'apatia delle membra, la rigidità delle giunture lo costrinsero a desistere da ogni movimento e, pian piano, fu nuovamente vinto da un'incontrollabile stanchezza. Ma prima di perdere i sensi, Michele senti la sua bocca sfiorata dalle labbra di Margaretha.

In quei tre giorni trascorsi silenziosamente con lo sguardo fisso su quel volto insanguinato ma vivo, nella giovane era successo quello che sempre avviene in una donna vissuta per lungo tempo senza speranze ed in miserevole solitudine. La stessa cosa, però, chissà se per istinto o per gratitudine, era capitata anche a Michele, che pure aveva visto la sua salvatrice solo per alcuni istanti.

Cosi egli accolse felice quel rapido bacio, pur non potendolo contraccambiare.

4. Un incredibile arruolamento

Lontano, sull'estremo limite visibile della piana di Csòngràd, si alzava sempre più intensa una lunga scia di polvere, senza dubbio quella sollevata dal leggero trotto di un reparto di cavalleria. Michele, ormai completamente ristabilito, si arrampicò agile su di un albero per scorgere prima possibile le insegne di quell'esercito e sapere così s'era cristiano od ottomano.

Pian piano la schiera si avvicinò e quando fu a circa tre o quattro miglia, Michele ebbe la certezza che si trattasse proprio del suo reggimento. La bandiera del Marchese Degli Oddi garriva intatta davanti a tutti e pareva inneggiare alle vittorie di cui si era arricchita da quando aveva lasciato Csòngràd.

Michele scese rapidamente dall'albero e corse verso Margaretha gridandole pieno di gioia;

«Sono loro! Sono i miei compagni.»

«Voglio stare con te.» Disse la ragazza, chinando il capo per nascondere il pianto ancora represso ma che non avrebbe più trattenuto a lungo.

Quel “voglio stare con te”, detto sommessamente, quasi fosse uscito più d'istinto che per volontà, riportò Michele alla realtà del momento: la sua salvezza infatti (quella definitiva, che stava giungendo con l'arrivo dei propri compagni d'arme), rappresentava per Margaretha la fine del loro improvviso e splendido rapporto ed il ritorno a quel mondo di miseria e solitudine da cui, sia pure per un mese soltanto, era stata liberata la notte in cui lo aveva trovato ferito e morente.

Michele le prese le mani e se le portò al petto.

«Sono soldato - le sussurrò - so fare solo il soldato. La mia vita è combattere, combattere sempre, oggi qui, domani a cento miglia da qui... ma ti amo, Margaretha e sono pronto a restare con te per sempre.»

«No, Michele. Anch'io voglio stare con te, ma non posso chiederti il sacrificio di abbandonare tutto, di disertare e di trascorrere il resto della tua vita in miseria e in una terra che non è tua.»

Il giovane non seppe che dire. Oh, come avrebbe voluto raggiungere i suoi compagni senza lasciare la ragazza! Ma non era possibile. C'erano sì nel reggimento delle donne, le cosiddette “vivandiere”, che si occupavano di cucina, di vestiario e di lavanderia, ma facevano altre cose... specie la sera e dietro compenso... No, Margaretha non poteva seguirlo, non l'avrebbe mai permesso! Piuttosto, rimaneva lui.

Non ebbe però il tempo di esprimere questa sua decisione, perché Margaretha mostrandogli un abito maschile, gli disse:

«Lo tolsi ad un tuo compagno morto lì vicino a te. Se mi taglio i capelli e l'indosso sarò soldato anch'io e ti starò sempre vicina. Marcerò, bivacche­rò e combatterò con te, Michele, e se morirai - Dio non voglia! - moriremo insieme.»

«È una pazzia, Margaretha...» disse il giovane, ma con ben poca convinzione.

5. Il ritorno fra i compagni d’armi

La sera era tranquilla e nell'accampamento i soldati si preparavano a trascorrere la notte: venivano accesi i fuochi, erano controllate le legature dei cavalli, si decidevano i punti ove porre le sentinelle.

Nota 6

Sono questi i nomi citati come testimoni nell’atto parrocchiale e sono unicamente denominati “cittadini bolognesi”. E parso suggestivo trasformarli in compagni d'arme di Michele e come tali farli entrare nella storia sin dal suo inizio.

Giuseppe Natali e Giovanni Simonini (nota 6) iniziarono il primo turno di guardia volentieri, perché poi avrebbero potuto dormire tranquilli tutta la notte. Seppure attenti alla parte di terreno che si estendeva davanti a loro e con le orecchie tese ad ogni rumore, i due parlavano del più e del meno e, soprattutto, ricordavano la loro città, quella di Bologna che, con diversi commilitoni, avevano abbandonato tre anni prima e che non avevano più rivisto.

Un improvviso fruscio fra i cespugli antistanti l'accampamento, quasi al margine di un sentiero appena battuto, interruppe la conversazione delle due sentinelle che prontamente si alzarono e puntarono il moschetto verso il luogo da dove il rumore parve essere giunto.

«Chi va là?» urlò Giuseppe con voce minacciosa e perentoria.

Una voce titubante rispose:

«Soldato Michele Lindini, del Reggimento del Marchese Degli Oddi, agli ordini del Capitano Raccowitz.»

«Michele? - esclamò la sentinella fra il sorpreso e il divertito - Proprio Michele di Bologna, della Parocchia di Santa Maria?»


La sconsacrata chiesa di
S. Mattia in via Sant’Isaia

«Sì! - assicurò la voce - e tu chi sei?»

«Sono Giuseppe, il tuo compagno di tenda! Vieni avanti, c'è anche Giovanni con me! Ma non sei morto? Ti abbiamo visto proprio qui, un mese fa, col petto squarciato.»

«Se non distingui più un morto da un vivo - esclamò Michele uscendo dai cespugli seguito da Margaretha - è meglio che torni a fare il panettiere in Sant’Isaia, imbecille che non sei altro!»

I due si abbracciarono festosamente. Poi, Michele si rivolse a Giovanni, e dandogli una pacca sulla spalla, spiegò:

«Ero solo ferito e se non era per questo ragazzotto, io, morto lo sarei davvero. Ma vi racconterò tutto dopo, portatemi dal capitano.»

«Certo! Fra un'ora stacchiamo e in tenda abbiamo un bel barilotto di birra. E del ragazzo, che ne facciamo?» chiese Giuseppe indicando col capo Margaretha.

«Lui viene con me. Un tipo cosi in gamba non farà certo male ad un esercito sgangherato come questo.»

6. Un vero militare: il capitano Raccowitz


Ufficiale del ‘600

Ludovico Raccowitz, pur non essendo di bassi natali, non era tuttavia neppure tanto nobile da poter ottenere il comando di un intero reggimento e se ora poteva fregiarsi di tale grado, lo doveva in un primo tempo al gran valore dimostrato sul campo, poi alla capacità di imporsi alla truppa e di ottenere da essa il massimo dell'impegno, talora con l'autorità più assoluta, ma più spesso con una comprensione inusitata per quel tempo.

Seduto davanti alla sua tenda, teneva un gran boccale di birra nella mano destra, mentre con la sinistra palpava una grassoccia ed ilare vivandiera che gli sedeva sulle ginocchia.

Giovanni gli si presentò sull'attenti:

«Chiedo venia, eccellenza, ma c'è qui il soldato Lindini, scomparso un mese fa, che chiede di essere ammesso alla vostra presenza.»

«Il solito disertore pentito? Sia legato alla ruota di un carro e impiccato all'alba!»

«Scusatemi ancora, eccellenza, non è un disertore. Fu creduto morto e abbandonato in questa zona dopo la battaglia di un mese fa. Appena ci ha visti è rientrato nei ranghi. Vieni avanti, Michele.»

«Hai schivato un bel po’ di scontri eh, soldato? - gli disse Raccowitz -Ma non devi essertela goduta molto, almeno a quanto vedo... vuoi un po’ di birra?»

«Se proprio non è di disturbo, eccellenza, grazie! Volentieri!»

La vivandiera si divincolò dall'abbraccio del capitano, riempi un boccale e lo diede a Michele. «Ecco a te, bel giovane... e questo bel ragazzino chi è?»

«Si chiama Marco Kravattov, ha sedici anni ed è nato qui.»

Poi, rivolto al Capitano, continuò: «Eccellenza, se sono vivo lo devo a lui: mi ha curato per giorni e giorni e mi ha rimesso in sesto. E un valoroso che odia i mussulmani perché gli hanno ucciso i genitori ed i fratelli. Vuole vendicarsi e combattere. Vi chiedo per lui la grazia di permettergli di entrare nel Reggimento e di mostrarvi tutto il suo coraggio.»

«Un po' patito e mingherlino, il piccolo... ma sono sempre due braccia in più. Concesso, ma sotto la tua responsabilità! Vai ai carriaggi e fagli dare dal furiere la fascia del Reggimento. Le armi le avrà se riuscirà a guadagnarsele in battaglia. Prendi una fascia nuova anche tu, e mettiti in ordine, che fai schifo cosi tutto stracciato!»

Anche la vivandiera disse la sua: «Se poi avrai qualche voglia da sfogare, bel soldatino, le mie amiche hanno sempre la tenda dove tu sai...» Ma non finì la frase perché Raccowitz la prese per il braccio e l'attirò a sè affondandole il viso nel seno prosperoso e seminudo.

Margaretha girò lo sguardo altrove.

7. Si rientra in patria: dall’Ungheria a Bologna

Per oltre due anni il Reggimento continuò a combattere, su vari fronti, meritandosi l'encomio dei grandi Generali e dello stesso Imperatore.

Anche i nostri due eroi combatterono, sempre fianco a fianco e distinguendosi per coraggio e abnegazione, specie Margaretha, la quale, appena diventata Marco e legatasi la fascia del reggimento alla vita, si era trasformata in un soldato fra i più accaniti e capaci, nonostante la giovanissima età. In definitiva, la sua vero indole, che già era emersa guardando la battaglia della piana di Csòngràd, ora poteva esprimersi prepotentemente, nell'incrociare la spada e nello sparare al nemico.

Nel novembre del 1663 giunse da Vienna al reggimento del Marchese Degli Oddi, l'ordine di rientrare e di trasferirsi, per svernare, sul territorio pontificio.

Sotto l’emblema dell’Imperatore era scritto:

Il Reggimento di sua eccellenza il marchese Degli Oddi sarà stanziato nella Regione Romagna e nella città di Bononia, dove Sua Santità ha chiesto ai Re Cattolici ausilio e sussistenza, per debellare il brigantaggio e il banditismo, che tanto danno recano alle città cristiane e alla moralità dei sudditi.” (Nota 7)

«Si torna a Bologna!» annunciò Giovanni entrando di corsa in tenda e ricevendo da chi le occupava un evviva quanto mai entusiastico.

Nota 7

L'ordine qui riportato e pura invenzione. E certo, però, che dal 1662 al 1665 a Bologna furono ammazzate, su quasi 70.000 abitanti oltre 3.600 persone (confr. Gida Rossi “Bologna, nella storia, nell'arte e nel costume ”), tanto che il Cardinal Legato del tempo, Luigi Capponi ebbe a dire che .”a tener quieto il popolo ci vuole corda grossa. pane grosso e forche nuove”.

«Bologna? La tua città, vero?» Sussurrò Marco a Michele in un italiano molto stentato.

«Sì, e di Giovanni, di Giuseppe e di tutti quelli che bivaccano in questa parte dell'accampamento. Torniamo tutti in patria, Margheretha, cosi anche tu potrai vedere quant'è bella la mia città!»


L’ottocentesca chiesa di
San Paolo di Ravaone

Gli occhi di Michele luccicavano di gioia e non solo perché avrebbe potuto rivedere la sua patria e gli amici di un tempo, ma anche e soprattutto perché, in cuor suo, contava che, una volta giunto a Bologna, avrebbe più facilmente potuto essere esonerato dal servizio militare per tornare cosi a fare il contadino. Non si era mai dimenticato, infatti che i suoi avevano in affitto dai frati di San Paolo di Ravone, un piccolo podere che, prima della carestia, permetteva una vita, se non proprio agiata, almeno sopportabile; senza contare che, una volta tornato civile, avrebbe potuta anche smetterla, finalmente, con quella sceneggiata di Marco, così da riavere la sua Margaretha e, sposandola, viverci insieme tutta la vita.

Questo desiderio di chiudere col reggimento era naturale, perché, in quei tre anni di vita militare, i due innamorati, pur essendo fisicamente vicini, pur potendo parlarsi talvolta anche intimamente, e pur dormendo sotto la stessa tenda e quindi nel medesimo alloggio, si sentivano in effetti quanto mai divisi e lontani e di questo stato decisamente anomalo per chi si ama, ne soffrivano entrambi. C'era inoltre un altro motivo che li spingeva ad uscire dall'assurda situazione in cui si erano messi: la ragazza nonostante il travestimento e i capelli tagliati, acquistava sempre più quelle fattezze che rendono la vera donna inconfondibile, senza contare che la stessa sua indole, com'era naturale, la diversificava ben più dell'aspetto dalla soldataglia con cui era costretta a convivere, perché il suo continuo arrossire ed il suo perenne atteggiamento di vergogna nei confronti di ciò che vedeva ed udiva attorno a sé, se non avevano ancora suscitato dei sospetti, certamente erano stati notati con curiosità e diffidenza.

Da questa situazione ormai insostenibile occorreva uscire e Michele contava molto su Bologna, dove più facilmente avrebbe potuto ottenere l'esonero militare (magari facendosi raccomandare da qualcuno) e la soluzione di tutti i suoi problemi.

Margaretha non potè non convenire con i progetti di Michele, anche se, come donna, era più concretamente consapevole delle difficoltà che ci sarebbero state nell'abbandonare il reggimento. Ma non disse nulla per non disilludere l'innamorato e fargli svanire una speranza che, appunto perché tale, lo rendeva felice e gli faceva pregustare momenti migliori.

La Grada, in una foto del primo Novecento

Ai primi di gennaio del 1664 il Reggimento del Marchese degli Oddi entrò trionfante a Bologna, ponendo il campo nella grande piazza d'armi, fra il canale Reno e via San Felice, presso la Grada.

7. Non si può abbandonare il reggimento

Michele si presentò al Cappellano militare del reggimento, l'agostiniano Francesco Bruner, e chiese di confessarsi.

«Era un po’ che non ti vedevo.» Lo rimproverò il frate; poi, indicando il basamento di una colonna di un vecchio portico del misero quartiere, lo invitò a sedersi.

Portico di via S. Caterina (1920 ca.)

«In nomine Patris, Filii ed Spirictu Sancti... Dimmi pure, figliolo, i tuoi peccati.»

Michele sciorinò le solite cose che, in verità, erano ben poco peccaminose a confronto di quelle trasgressioni di fede che il cappellano era uso ascoltare dai soldati. Lo scopo della confessione, evidentemente, era un altro e Frate Bruner se ne reso conto ben presto: conosceva le sue pecorelle e sapeva bene quando venivano da lui unicamente per cose che niente avevano a che fare con il sacramento della confessione.

«Ego te absolvo in nomine... ecc. ecc... dimmi l'atto di dolore.»

«Mio Dio, mi pento e mi dolgo di tutti i miei peccati, perché peccando ho...»

Ma il frate lo interruppe:

«E va bene, va bene... e adesso che mi hai raccontato tutte queste stupidaggini, caro Michele, dimmi un po' cosa vuoi in realtà dal tuo confessore.»

«Vede, padre, non voglio più fare il soldato. Il ritorno a Bologna, l'aver rivisto i miei ed il podere che tanto faticosamente portano avanti, mi hanno fatto cambiare idea. Vorrei restare qui ed abbandonare il reggimento. Se lei volesse farmi la grazia di intercedere per me presso l'illustrissimo Marchese...»

«Siete tanti di questa città che mi avete chiesto la stessa cosa e purtroppo nulla ho ottenuto e nulla otterrò... Forse occorre rivolgersi a qualcuno più importante di me, ma anch'io non so cosa e chi consigliarti. Mi dispiace, Michele, ma credo che sia impossibile per te lasciare questo Reggimento.»

Le parole furono per il soldato un brutto colpo, ma egli non desistette e una domenica si recò al convento dei Cappuccini di San Paolo di Ravone per perorare là la sua causa presso l'Abate che lo conosceva. Il prelato l'ascoltò, poi scosse la testa benevolmente: neppure lui poteva far nulla, pur convenendo che Michele, come figlio di affittuari d'un podere del convento, avrebbe meritato di tornarvi con vantaggi per tutti.

Altre persone altolocate Michele non ne conosceva per cui comprese che, se voleva realizzare il suo progetto, doveva agire solo con le proprie forze e l'unica possibilità era la diserzione, la fuga e l'imboscamento fino a quando i soldati non fossero ripartiti da Bologna.


Accampamento di esercito
(stampa del Mitelli – 1708)

Trovò Margaretha sotto la tenda che preparava un fagotto di roba. Senza che Michele le avesse detto niente degli inutili colloqui avuti col cappellano militare e con l'abate di San Paolo, la ragazza, ben più concreta e realista, si era già organizzata per attuare la stessa decisione che lui aveva adottato solo alla fine di ogni speranza.

«Dobbiamo fuggire e questa sera tocca a me. - gli disse - La mia diserzione dovrebbe far meno scalpore essendo io straniera. Non so dove andare, ma cercherò di nascondermi sulle colline attorno a San Luca. Non appena le acque si saranno calmate, mi raggiungerai. Da lì vedremo la partenza del Reggimento e potremo ritornare.»


San Luca prima del rifacimento realizzato dal Dotti a metà del ‘700

Michele non aveva nulla da opporre alla decisione della ragazza, per cui chinò il capo e sussurrò semplicemente: «Sta bene!»

Attesero le prime ombre della sera vicini senza parlare, poi si avviarono furtivamente verso i limiti dell'accampamento. Le sentinelle di guardia stavano presso un fuoco e masticavano distrattamente quel pane e zuppa che costituiva il rancio serale. Margaretha diede un fuggevole bacio a Michele e si allontanò attraverso gli orti di via Pietralata.

«Sta attenta, amor mio. - pensò Michele come preghiera - Se ti perderò, la vita non avrà più senso per me.»

8. La cattura

Il disertore fu trascinato legato davanti al Capitano Raccowitz ed il gendarme fece rapporto:

«Eccellenza, è Marco Kravattov, l'ungherese che ieri notte ha cercato di disertare; credeva di averci beffato mentre stavamo di guardia al picchetto tre, ma s'era illuso il traditore e l'abbiamo prontamente catturato, dopo un lungo inseguimento. La mia ronda, nel consegnarvelo, richiede la giusta mercede prevista per chi riporta al campo un disertore.»

«A te ed ai tuoi fidi!» Disse il Capitano lanciando una borsa di monete al gendarme, poi si rivolse a Marco: «Ebbene, piccolo traditore? Hai qualcosa da dire o salirai sulla forca senza parlare?»

Marco taceva, nè avrebbe saputo che dire.

«Ebbene così sia.» Gridò Raccowitz, ma a questo punto intervenne padre Bruner, il cappellano del reggimento:

«Eccellenza - gli disse - prima di decidere e dare un comando definitivo, vi prego di considerare la giovinezza del ragazzo, la sua condizione di straniero e soprattutto il valore che ha sempre dimostrato in battaglia. Perdonatelo, eccellenza, rimettetelo nei ranghi e se ciò non si può fare per la disciplina militare, lo si conceda come atto di pietà cristiana.»


Monete coniate dalla Zecca di Bologna
a metà del ‘600.

«L'ho sempre detto io che i frati stanno bene in convento e non nell'esercito. Tre scudi mi è costata la cattura di questo delinquente e non ho neppure la soddisfazione di vederlo appeso... Ma chi gli ha chiesto di arruolarsi? Non fu lui a richiederlo? E allora cosa vuole adesso? Ma già, il frate decide per me e mi tira fuori anche la pietà… E va bene, padre Bruner, sia perdonato il disertore, ma attenzione: che da questo momento non abbia più a sgarrare, neppure un poco, dalla disciplina del mio reggimento...»

Raccowitz si girò e si allontanò furibondo, ma padre Bruner sapeva che era tutta scena. Il capitano non aveva nessuna intenzione di impiccare il giovane, non era nel suo carattere, e appena qualcuno gli aveva dato una mano almeno per salvare le apparenze, aveva perdonato.

La pena di Marco fu lieve: una settimana a pane ed acqua, legato al fusto di un cannone e quando ritornò nel suo quartiere, Michele, che non aveva potuto parlargli durante la prigionia, si fece raccontare tutto. Nonostante il negativo esito della fuga, i due, lungi da ogni tipo di pentimento, stabilirono di ritentarla, ma questa volta armati e insieme.

«Se saremo scoperti - spiegò Michele - avremo almeno una possibilità in più di salvarci, perché potremo combattere e difenderci, prima di essere catturati. Tenteremo fra una settimana, quando le acque si saranno calmate e invece di andare sui monti, andremo a valle; i contadini ci aiuteranno vedrai.»

9. La lotta per la libertà e l’amore


Mura e Porta di san Felice
in una mappa dell’inizio del ‘700

La notte del 18 febbraio i due, strisciando fra tende e carriaggi, uscirono dal campo, si immisero in via San Felice e sfruttando il buio dei portici si avviarono verso porta. Qui giunti gettarono una corda a gancio sulla sommità delle mura.

«Vai!» disse Michele a Margaretha che iniziò ad arrampicarsi, mentre il giovane tendeva la corda per agevolarne la salita. Quando toccò a lui, però una fiaccola apparve alle sue spalle. Erano i cinque uomini di ronda a Porta San Felice: «Femo là! Prendetelo!» comandò il capo dei gendarmi agli altri quattro che subito si gettarono all'attacco puntando le alabarde verso il fuggitivo. Questo si volse ed estrasse la spada urlando a Margaretha: «Fuggi, non farti prendere, ti copro io!»

Il duello, una spada contro quattro lance sarebbe stato impossibile da sostenere, ma l'abitudine di Michele alla battaglia, il suo innato coraggio, ed il fatto che quel duello era per lui questione di vita o di morte, gli diedero la forza e l'abilità di fermare i gendarmi, per altro più usi a catturare malandrini di poco conto, che affrontare veri e propri combattenti. Dall'alto delle mura Margaretha stette solo un attimo in dubbio, ma poi si decise ed aggrappatasi alla corda ridiscese rapida a terra, unendo la sua spada a quella di Michele. Nonostante la differenza delle forze il duello si stava volgendo a favore dei due: un gendarme era a terra ferito, uno dimostrava una certa incapacità ad usare la lunga arma e gli altri due, più che attaccare con le alabarde, si difendevano, nonostante che il capitano, in disparte, continuasse a dare ordini e gli incitasse a caricare. Visti gli sforzi inutile dei propri uomini, egli allora estrasse la pistola e sparò.

Margaretha sentì un freddo gelido alla fronte e fu tutto. Cadde a terra col viso insanguinato e a questa vista Michele, urlando disperato il nome della donna, lasciò la spada e si inginocchiò presso di lei abbracciandola e cercando di sollevarla. I gendarmi, udendo il nome femminile urlato dall'uomo, vedendo l'abbraccio inusitato di un soldato all'altro e notando la disperazione che il viso di Michele mostrava alla luce delle torce, più che sorpresi, rimasero esterrefatti e fu una fortuna, perché invece di trafiggere i due disertori, si avvicinarono con le alabarde tese e gliele puntarono contro.

Margaretha non era morta: la palla l'aveva colpita solo di striscio, lasciandola tramortita e con una ferita solo superficiale. I disertori furono legati con un canapo e trascinati al campo.

11. Solo il Marchese può decidere


Impiccagione, in un carboncino del 1700

«Impiccateli!» - ordinò con decisione il Capitano Raccowitz, non appena i due disertori gli furono davanti. Poi rivolto a padre Bruner, gli disse:

«Questa volta, frate, voi fate silenzio! La sentenza è irrevocabile, soprattutto per questo ungherese che avevo già avvertito...»

«Non potete uccidermi - urlò Margaretha - Io non sono un soldato, sono una donna!»

Raccowitz sbarrò gli occhi e la guardò esterrefatto. Non sapeva cosa e come ribattere a quella sorprendente affermazione, per cui si girò verso padre Bruner come implorando un consiglio e il frate, come sempre, lo soccorse, ordinando di far venire due vivandiere per visitare quello strano individuo che, pur essendo soldato, dichiarava di non essere uomo.

«È decisamente femmina! - disse una delle due donne, uscendo dalla tenda ove aveva provveduto alla visita - E direi anche bella e ben fatta, un vero bocciolo di rosa... Secondo me è anche vergine!»

La conferma della femminilità del soldato Marco, invece di risolvere la cosa, la complicò, ed il povero Capitano Raccowitz ora non sapeva veramente che pesci pigliare. Una donna che si fa passare per uomo, che si arruola, che combatte - e oltretutto come un leone! - e che poi diserta il reggimento per ben due volte, è punibile o meno? Si deve considerare un soldato oppure un civile? Domande queste a cui il polacco evidentemente non sapeva rispondere.

Fu ancora padre Bruner a prendere una decisione:


Nobile marchese del ‘700

«L'unico che può giudicare il tutto è Sua Eccellenza il Marchese degli Oddi, capo supremo di questo reggimento, che Dio l'abbia in gloria!»

E cosi fu fatto. La donna, non più legata ma con una nutrita scorta, fu portata dal capitano Raccowitz e da Padre Bruner al palazzo dove il Marchese risiedeva. Il gruppo venne ricevuto in una splendida sala riscaldata a tutto fuoco da un elegante camino; una grande tavola era imbandita di ogni ben di Dio; quattro grandi candelabri illuminavano l'ambiente, reso prezioso dagli stucchi alle pareti e dagli affreschi del soffitto a volta.

Il Marchese Degli Oddi, seduto su di un alto scranno, ascoltò attentamente la vicenda che padre Bruner gli presentava e man mano che il racconto diventava più avvincente il suo interesse aumentava, Guardava la donna più con curiosità che con simpatia e ammirazione, e alla fine emise, in modo pacato, la sua sentenza:

«Per quanto concerne costei, mi sembra fuori di dubbio che non possa essere condannata a morte, ma lasciata libera ed esonerata dal servizio militare che è e resta cosa da uomini. Nulla invece posso fare per l'altro disertore, il quale è nei ranghi del mio reggimento a tutti gli effetti e, tradendolo, ha tradito l'onore del mio nome e dei mie soldati. Sia pertanto libera lei e condannato a morte lui!»

Margaretha reagì con lo stesso coraggio con cui aveva combattuto per il suo uomo sotto le mura di San Felice. Non era una lotta d'arme con mano alle spade, ma era anche questo un duello all'ultimo sangue, perché dal suo esito dipendeva la vita di Michele.

«No! Vi scongiuro - gridò dimenticando ogni protocollo e buttandosi ai piedi del Marchese Degli Oddi - Michele non ha colpa alcuna. Con me disertò, per me lo fece, io sono la causa vera del suo tradimento! Mai avrebbe commesso tale delitto se io non mi fossi posta fra lui e il suo dovere di soldato... Ditelo voi, padre Bruner, e voi capitano Raccowitz, ditelo voi con quanto valore Mchele ha sempre combattuto per l'onore del reggimento in questi tre anni e nonostante la mia presenza; ditelo voi come sia sempre stato in prima fila anche nelle più feroci e sanguinose battaglie. Se ha tradito, alfine, io solo sono la colpevole: se lo uccidete, giustizia vuole che anch'io faccia la stessa fine e se salvate me, dovete salvare anche lui! I nostri destini sono uniti, lo sono sempre stati e sempre lo saranno.»

Il Marchese si alzò dalla sedia ove aveva seguito l'appassionata perorazione di Margaretha e si avvicinò alla finestra da cui poteva guardare, e con orgoglio, il campo ove bivaccava il suo Reggimento. Cosi rimase, con le spalle voltate agli astanti e nessuno vide il suo volto mentre parlava:

«L'onore dei miei soldati si misura sia in battaglia che in pace e questo onore non è stato toccato nè in un caso nè nell'altro. Siano perdonati pertanto tutti e due i disertori. Domattina, Padre Bruner, voi li sposerete e come dono di nozze mio personale, sia concessa loro la facoltà di lasciare il Reggimento. Cosi ho deciso e cosi sia!»

«Sempre ai Vostri ordini, illustrissimo Marchese! - Proclamò sull'attenti il capitano Raccowitz, senza poter nascondere un beffardo sorriso di soddisfazione. - Andiamo! Abbiamo già troppo importunato il nostro Signore, con questioni di nessun conto!»

12. Un insolito matrimonio

Il 20 febbraio 1664, a Bologna, nella chiesa parrocchiale di Santa Cristina di Pietralata, si svolse un ben strano matrimonio: celebrava un soldato, il cappellano militare Padre Francesco Bruner, presenziava un Capitano, Ludovico Raccovitz, i testimoni erano due sentinelle, Giovanni Simonini e Giuseppe Natali e gli sposi erano due... ex granatieri.

FINE