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State leggendo il romanzo giallo SHERLOCK HOLMES A BOLOGNA di Sandro Samoggia

 

INDICE GENERALE DEI SITO

 

INDICE DEL ROMANZO

INDICE “STORIA E FANTASIA


CAPITOLO 2
Hotel Brun, 26 giugno 1885, ore 12,30

 

Il Conte Paleotti concluse così il suo racconto: «Comprai l’anello che mi sembrò più adatto alla ricorrenza che volevo festeggiare e me ne andai dalla bottega di Coltelli. Nel salutarlo non potei fare a meno di esprimergli nuovamente tutta la mia preoccupazione per la donna che si era messo in casa; lui ammiccò apparentemente sereno, come a dire che preferiva qualche gioiello scomparso, piuttosto che perdere la compagnia della sua “cuginetta”.»

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Altra immagine dell’Hotel Brun

A questo punto mi sentii in dovere di intervenire: «Mi scusi, Signor Conte, ma perché lei ha incominciato la storia da un episodio che direi insignificante, come l’acquisto di un gioiello?»

La mia domanda non ebbe immediata risposto da parte di Paleotti, perché fu Holmes a intervenire: «Vede, Watson, considerare insignificante quanto raccontatoci dal Conte, è molto, ma molto riduttivo. Una donna che ha cinquant’anni di meno dell’amante ucciso, è un fatto molto importante per delle indagini e così anche il sapere che nel negozio dell’orefice ogni tanto sparivano dei gioielli.»

Mi sentii come uno scolaretto ripreso severamente dal maestro e messo per punizione dietro la lavagna, per cui non proferii più parole, nonostante avessi altre cose da domandare.

«Dottor Holmes, – disse Paleotti – lei ha certamente ragione e mi congratulo per come ha immediatamente capito l’importanza di questa mia specie di preambolo e sugli eventuali riflessi che potrebbe avere nell’indagine. Ora capisco perché l’ispettore Lestrade…»

«L’ispettore Lestrade? Greg Lestrade di Scotland Yard?» Lo interruppe Holmes, più che sorpreso, assolutamente allibito, come d’altra parte ero rimasto io, sentendo pronunciare quel nome.

«Sì, l’ho incontrato a Londra tre mesi fa, proprio a casa dei Duchi di Northumberland. Quando mi fu presentato e dopo aver fatto un po’ più di conoscenza, gli parlai dell’omicidio ancora insoluto di Coltelli, dandogli anche qualche dettaglio sulla vicenda. Sorrise e, ironicamente mi assicurò che un caso così non l’avrebbe risolto neppure Sherlock Holmes. Gli chiesi chi fosse costui e lui rispose semplicemente, ma serio, “il più grande detective del mondo”. Fu così che mi venne la voglia di conoscerla e di farla venire a Bologna per scoprire l’assassino. Lestrade fu gentilissimo e mi diede appuntamento per il mattino dopo in Baker Street, perché potessi conoscerla.»

«Sempre gentile, il mio amico Lestrade! – confermò Holmes – un po’ noioso, forse non molto acuto, ma certamente gentile!»

«Infatti… – convenne Paleotti –Ma quella mattina, lei non c’era e una graziosissima signora, mi sembra si chiamasse Hudson e che fosse la governante di casa, ci disse che eravate molto impegnato in una complicatissima indagine su di un uomo dalla gamba di legno.»

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 Il Collegio dei Bernabiti,
in via Cartoleria,
nell’800 scuole San Luigi

A questo punto non potei più tacere ed intervenni: «Ah, sì, è vero! Il tesoro del “Segno dei quattro”, quello che lei, Holmes, ha ottimamente risolto. Sto cercando di scriverne la storia.»

«D’accordo, d’accordo, caro Watson, - tagliò corto Holmes – lo sanno tutti che a lei piacerebbe scrivere le mie avventure, ma ora stiamo parlando di altro, dell’omicidio dell’orefice… »

«Ottimo titolo per un racconto!» Dissi quasi con entusiasmo.

«Sì, sì, sarà certamente un successo… A proposito, signor Conte, ci deve essere stato fra lei e l’orefice Coltelli un rapporto molto stretto, se mi ha fatto venire da Londra per indagare sulla sua morte.»

«Sì, in effetti è così e credo senz’altro che debbo darle una spiegazione anche su questo. Camillo Coltelli, non solo è da sempre fornitore di gioielli della mia famiglia, ma è anche e soprattutto un carissimo amico fin da quando eravamo ragazzi e collegiali del San Luigi… Bei tempi, quelli! Già da allora lui era uno scavezzacollo ed io gli ero spesso compagno. Più avanti, fu lui a presentarmi quella che sarebbe diventata mia moglie, fu lui a fare da testimone alle mie nozze, fu lui il padrino del mio primogenito. Vi dirò, dott. Holmes, che non fu facile per me giustificare nel mio ambiente una frequentazione così intensa con un semplice borghese e non proprio … come dire? … irreprensibile. »

A questo punto mi permisi ancora una volta d’intervenire: «Mi scusi, Holmes, ma non capisco la ragione per la quale le interessa tanto l’“escursus” sull’amicizia che univa il Conte all’orefice.»

«Vede, caro Watson, sono proprio i dettagli, specie se inimmaginabili, che portano le indagini a conclusione. Non so se lei se n’è accorto, ma quando il Conte ha sottolineato (uso le sue parole) “che non fu facile giustificare nel suo ambiente una frequentazione così intensa con un semplice borghese”, in fondo ha indicato, forse senza volere ma non importa, un possibile movente e, quindi, un’altra ipotesi investigativa su cui instradare le indagini.»

«Se è per questo – cercai anch’io di esibirmi – anche il fatto che l’Orefice sia stato un compagno di “gazzoie” (gozzoviglie) del signor Conte, può costituire, come dice lei, Holmes, un’ipotesi d’indagine, dato che cause antiche hanno effetti anche dopo anni ed anni!»

«Complimenti, Watson, vedo che sta facendo dei passi da gigante come investigatore. Ma andiamo avanti e ascoltiamo quello che il Conte ha ancora da dirci su questo caso che diventa molto, ma molto interessante.»

Il Conte non seppe resistere ai pochi pasticcini che facevano ancora bella vista di sé sul tavolino del salotto e si allungò per prenderne uno, stavolta uno spumoncino bianchissimo e friabilissimo; anch’io ne presi uno identico, mentre Holmes si riavvicinò alla finestra e riaccese la sua pipa. Io e il Conte masticammo golosamente i dolcetti, Holmes aspirò ed espulse diverse boccate di fumo, ma tutti e tre eravamo per la verità come in attesa, il Conte di riprendere la narrazione di quanto accaduto e noi due di ascoltarlo. Passarono alcuni secondi, il tempo di “mandar giù” i pasticcini con un'altra tazza di te, poi Paleotti cominciò a parlare: «Forse non vi ho detto che la gioielleria di Camillo Coltelli è situata in centro, in una via non larghissima, senza portici, ma è come se li avesse, a causa dei tanti tendoni che riparano le botteghe dalla pioggia o dal sole. La strada è via degli Orefici, nome che le è stato dato proprio perché qui si concentrano da secoli molti negozianti e artigiani che trattano preziosi. Il fattaccio si è svolto appunto nell’oreficeria che non era solo negozio, ma anche abitazione, essendoci sopra l’appartamento dove Coltelli viveva; lo si raggiunge dal retrobottega tramite una scala interna. Le descrivo l’ambiente perché in un’indagine di questo tipo le potrebbe essere utile per capire come si siano svolti i fatti.»

«Quindi – chiese Holmes – in casa si entra solo dal negozio?»

 

«Esattamente, né vi è alcun’altra possibilità, né di entrata né di uscita. Una volta c’era una porticina laterale, che dava sulla vicina via delle Accuse, ma Coltelli la fece murare per sicurezza.»

«Bene. – esclamò Holmes con un breve cenno d’assenso del capo – Abbiamo localizzato dove si è svolto il fatto ma, forse, quando sarà il momento sarà bene che io possa farvi un sopralluogo, anche se dopo tre anni e dopo le invasioni di estranei che si saranno succedute in quell’abitazione, non sarà certamente rimasta alcuna traccia interessante.»

«Cercherò di potervi far fare questo sopralluogo – assentì Paleotti – ma non so neppure che fine abbia fatto l’immobile. Di certo c’è che subito dopo la morte di Coltelli la bottega è stata chiusa dagli eredi e non si è più riaperta. Però potremmo intanto vederne l’esterno e i dintorni e, vista l’ora, andarci adesso. Anzi, ci andiamo senz’altro, così potremmo anche pranzare lì vicino, in vicolo Ranocchi, dove c’è l’antica osteria “del Sole”. Conosco l’oste e di solito mi tratta molto bene.»

Accettammo e dal sorriso di Holmes capii che l’invito era di suo completo gradimento, sia per il mangiare, sia per la prossimità dell’osteria al luogo in cui si era verificato l’omicidio.

«Mentre andiamo, – ci anticipò Paleotti - posso raccontarvi o, meglio, relazionare sui fatti di quella notte fra il 19 e il 20 dicembre di tre anni fa...»

 

Anni prima…
…Osteria del Sole, il 19 dicembre 1882, alle ore 23 circa

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 L’insegna dell’ osteria
del Sole dal 1600

«Bän, Tugnèn, csa fèt qué, da st’åura? (, Antonio, cosa fai qui a quest’ora?)».

«Am êra stufè ed stèr in e alåura a sån vgnò qué par vàdder s a i fóss quelcdón e bàvvrum un quartén in cunpagnî (M’ero stancato di stare in casa e allora son venuto qui per vedere se c’era qualcuno e bere un quartino in compagnia).»

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 Partita a scacchi in osteria
(Alessandro. Guardassoni,
autoritrattosi al centro))

La chiacchierata si svolgeva all’Osteria del Sole in via dei Ranocchi, fra gli unici due avventori che c’erano in quel momento, Giuseppe Baravelli, detto “Ioffa” (ma molti preferivano chiamarlo “Baravèl) e Antonio Zanotti, detto “Tugnèn”. Di solito l’osteria era piena, con svariati tavolini attorno ai quali si giocava a “Ottzant” o a “Terziglio  (Ottocento o Terziglio), o anche a scacchi, fra il fumo dei toscani e l’intenso odore del vino, ma quella sera, forse per il gelo che c’era fuori, gli habitué non erano venuti.

«Stavo per andare a casa… sai, prima che venga a piovere.» Disse “Ioffafinendo di sorseggiare quel goccio di vino che aveva ancora nel bicchiere.

«Non piove mica, fuori ci sono le stelle! Ci sono ancora le vetture parcheggiate in attesa dei clienti, Dai, tienimi compagnia un poco! Ti offro io da bere.»

«E chi si muove da qui!» Esclamò Ioffa”, mentre gli occhi gli brillarono più che mai sia per il vino già tracannato, sia per quello che avrebbe ancora bevuto, e gratis, offertogli da Tugnèn.

«Il solito litro, Pasquèn e di quello buono,– ordinò Tugnèn rivolgendosi serio all’oste – ma quello buono per me, non quello innacquato, ch’è buono solo per te!»

E l’oste, di rimando, ma spillando il vino dalla botte:

«Fèt sänper l’èsen? (Fai sempre l’asino?)»

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Un vetturino dell’800

L’oste cominciò a mescere quanto gli era stato ordinato, ma venne subito interrotto da un urlare improvviso, angoscioso e lacerante che, venendo dall’esterno, sembrò sfondare la piccola vetrina dell’osteria e sbattere contro botti e bottiglie per rimbalzare sulle pareti e nelle orecchie dei tre uomini. Era una disperata e terrorizzata voce femminile che chiamava aiuto.

«E questo cos’è?…» Si domandò e domandò agli altri Tugnèn.

Non vi fu risposta perché Ioffa e l’oste stavano già uscendo di corsa dalla bottega per andare a vedere cosa stava succedendo là dove le grida venivano. Tugnèn allora si alzò, ma mentre stava per uscire si accorse che nel bicchiere di Ioffa era rimasto un bel po’ di vino, per cui tornò indietro e lo bevve in fretta; poi cercò di raggiungere gli altri, per vedere anche lui quello che stava succedendo.

Anche il vetturino Franco Zanoli, detto Frustèin”, che aveva parcheggiato la sua carrozza in piazza degli Uccelli, sentì le grida e girato il capo verso via degli Orefici, vide che si trattava di una donna affacciata ad una finestra del primo piano che, oltre ad urlare, si sbracciava a più non posso sporgendosi al massimo verso la strada.

«Calma, calma, signora, cos’è successo? Stia calma….» Gridava Pasquèn cercando di rasserenare la donna.

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Le botteghe di via Orefici in un disegno ottocentesco di Guido Neri

«Aiuto, aiuto… Fatemi uscire da questa casa…. Hanno ucciso Coltelli, aiuto, sono qui chiusa dentro. Aiutatemi, se no mi butto giù dalla finestra.»

«Stia calma signora, adesso vediamo di farla uscire, non c’è pericolo, siamo qui noi… stia tranquilla…»

A questo punto Frustèin”, diede una secca scrollata alle briglia, tirò a forza quella di sinistra e incitando il cavallo col nerbo, lo diresse quasi al galoppo in via degli Orefici, fermandosi davanti all’oreficeria: «Calma, Calma! – gridò a più non posso – Adesso corro a chiamare i pompieri, stia calma!»

Ma prima che il vetturino partisse, la donna gli urlò: «Chiama anche la polizia! Hanno ucciso Coltelli! È qui nel letto pieno di sangue. Chiama la polizia.»

Mentre la vettura partiva al galoppo, i tre continuavano a sollecitare la donna a tranquillizzarsi, dicendole che non c’era più alcun pericolo, che a breve sarebbero arrivati i pompieri, che l’avrebbero fatta uscire di lì e che l’avrebbero salvata; solo l’oste, però, e Tugnèn sembravano davvero agitati e preoccupati per la sua disperazione; Ioffa, no, lo faceva in modo più pacato, quasi svogliato o, peggio, disinteressato. In effetti più che l’angoscia era la bellezza della donna, anzi della giovane ragazza, ad attirare la sua attenzione, tanto più ch’ella era completamente discinta, quasi seminuda, una seminudità ancora più sensuale proprio perché non voluta e senza possibilità d’essere evitata. Ioffa arrivò anche al punto di dare un piccola gomitata al fianco di Tugnèn, e di dirgli sottovoce ad un orecchio:«Èt vésst cumm l’è bléinna e che dåu tätt ch'la i à? (Hai visto com’è bellina e che due tette che ha?)»

Proprio in quell’istante, giunse il carro dei pompieri che mettendosi subito all’opera fecero scendere la donna dalla finestra con l’aiuto di una scala, la coprirono subito con una coperta e la fecero sedere in un panchetto che avevano recuperato dal loro carro. Ancora alcuni minuti d’attesa, poi giunse una ronda di tre poliziotti che provvide subito a far spazio attorno alla donna finalmente ritornata calma.

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