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State leggendo il romanzo giallo SHERLOCK HOLMES A BOLOGNA di Sandro Samoggia

 

INDICE GENERALE DEI SITO

 

INDICE DEL ROMANZO

INDICE “STORIA E FANTASIA

 

CAPITOLO 12
Palazzo Paleotti, 3 luglio 1885, ore 18

 

Descrizione: Descrizione: C:\Users\Sandro\Desktop\SCHERLOK CD\000CAP 12_file\image002.png
Palazzo Paleotti esterno su piazza Verdi, un portale del loggiato superiore e il cortile

Rimasi molto deluso alla vista di Palazzo Paleotti quando vi giunsi assieme ad Holmes e a Luciano con la carrozza inviataci dal Conte: l’edificio mi sembrò un grosso cubo di mattoni intonacati senza alcun ornamento e di sobrietà non tanto essenziale, quanto assoluta; anche il portale dell’entrata era pressoché nudo, né più grande, né più elegante di una comunissima porta di casermone men che popolare, come per altro le finestre semplicemente squadrate e prive di fronzoli. Per essere la residenza di uno dei discendenti della nobilissima stirpe inglese dei duchi di Northumberland, quel palazzo mi sembrò davvero una delusione. Ma quando entrammo in quel misero portone accompagnati da due valletti in livrea, la mia impressione negativa cambiò del tutto nell’attraversare un cortile veramente bello, accompagnato com’era da un agile ed elegante loggiato quattrocentesco; nel salire su per uno scalone molto elegante, seppure contenuto per ampiezza e decoro e, soprattutto, nell’entrare nel piano nobile superiore, dove logge, corridoi e sale erano davvero splendidi.

Fummo annunciati al Conte Paleotti, che era seduto nel salotto di casa, assieme ad altri quattro ospiti: uno era Alfredo Testoni, gli altri si presentarono come il barone Riccardo Canetoli, il marchese Giorgio Marescotti e il signor Tommaso Tubertini. Erano anch’essi amici dell’orefice ucciso e anch’essi, come mi fu detto, interessati a sapere chi avesse commesso quel misfatto.

Cenammo senza donne al tavolo e, più che la residenza aristocratica di un nobile bolognese, mi sembrò di stare in uno dei nostri bei club inglesi; era forse proprio per questo che Luciano era in grosso disagio, perché mai avrebbe pensato di far parte, anche solo per una sera, di una compagnia tanto altolocata e tanto diversa dalla sua, e quando ciò gli era capitato come cameriere all’Hotel Brun, lui era in piedi vicino al tavolo per servire la cena e non certo seduto per esserne partecipe.

Né posso nascondere che i tre notabili bolognesi invitati da Paleotti erano alquanto sorpresi dall’incomprensibile presenza di quella specie di corpo estraneo fra le “loro maestà”; quando, però, il barone Marescotti se ne uscì esprimendo ad Holmes e a me il piacere di averci finalmente conosciuti, e Luciano ebbe a tradurci in inglese quanto detto, ogni titubanza su di lui svanì all’istante ed anche il Conte ebbe a complimentarsi palesemente per la tempestività dell’intervento e per l’esattezza della traduzione. Così il dialogo continuò per tutta la cena, senza alcun intoppo dovuto alla diversità delle lingue, perché a parlarle entrambe erano in tre su otto presenti: il Conte Paleotti, il giornalista Testoni (per la verità in modo molto approssimato, ma comprensibile) e Luciano. A tavola i dialoghi non sfiorarono mai l’argomento che ci aveva lì riuniti, ma divagarono – volutamente e anche un po’ forzatamente – su tutt’altro: dalla situazione politica della città al degrado ch’essa stava attraversando; dai pettegolezzi su questo o su quella al continuo rialzo dei costi; dal tempo non proprio ottimo di quel luglio, alla raccolta del grano anche quell’anno inferiore alle attese. Propio per queste futili chiacchiere ebbi ancor più l’impressione che in una serata così nessuna differenza ci fosse fra l’Italia, o almeno Bologna, e l’Inghilterra.

Nessuna? Per la verità una ce ne fu e anche notevolissima: il cibo. Vennero portati in tavola diversi piatti, tutti decisamente ottimi e molto curati sia nella presentazione che nei livelli di cottura, il che, però, mi convinse viepiù che quegli alimenti, tortellini in brodo, lasagne al forno, fritto misto e arrosto di maiale, non fossero propri adatti ad una vita salutare; comunque erano davvero ghiotti e li gradii enormemente; nulla mi rimase nei piatti che via via mi venivano serviti dai camerieri.

Le chiacchiere fatte durante la cena, finirono non appena ci trasferimmo nel salotto: qui non vi fu nemmeno il tempo di respirare, perché il barone Canetoli, che non s’era neppure seduto, si pose innanzi ad Holmes e in modo quasi imperioso, gli domandò secco e senza giri di parole: «Allora, chi ha ucciso Coltelli?», subito tradotto da Luciano in «So, who killed mister Coltelli?»

Holmes non si fece certo intimorire dal modo in cui gli era stata posta quella domanda e com’era solito fare, cominciò a rispondere prendendola molto da lontano.

«Quando fui ragguagliato sul caso, l’unica cosa giuridicamente accertata era l’innocenza con formula piena di Enrica Zerbini. Se la donna era innocente, allora era vero il suo racconto sull’entrata di un estraneo nella casa e del conseguente omicidio da lui commesso; ed era su questo estraneo che occorreva indagare…»

«C’è poco da indagare su costui – lo interruppe Tubertini – si chiama Giuseppe Piccioni!»

«Vedremo poi anche questo, ma adesso chiariamo alcuni spetti basilari per capire davvero come si siano svolti i fatti. Prima di tutto: come mai in pieno inverno c’era una finestra aperta nella stanza ove l’orefice dormiva?»

«Che importanza può avere questo dettaglio?» Domandò Testoni che, mentre Holmes parlava, stava prendendo appunti in un taccuino.

«Non è un dettaglio, signor Testoni, ma un fatto essenziale per il prosieguo dell’indagine, perché è solo da quella finestra che l’assassino sarebbe potuto entrare e se era aperta, poteva anche essere che qualcuno l’avesse lasciata così proprio per agevolarlo.»

«In questo caso rientrerebbe in campo la Zerbini, – insistette Testoni – l’unica che poteva farlo. Intende dire, signor Holmes, ch’essa se non l’assassina, è stata almeno complice dell’assassino?»

«No, la Zerbini è innocente e non è stata complice di nessuno! Il Coltelli soffriva d’asma e l’aria era per lui indispensabile. La finestra era aperta come tutte le notti e chi avesse voluto penetrare in quella casa lo sapeva benissimo. Altra domanda: come ha fatto l’assassino ad entrare nell’oreficeria da una finestra posta all’altezza di poco più di quattro iarde in un muro privo di qualsivoglia appiglio? Il caro Dottor Watson ha suggerito che abbia semplicemente usato una scala, ovviamente portandosela dietro, per poi, commesso l’omicidio, ridiscendervi e andandosene con essa... »

«E quali altre alternative ci sono alla spiegazione che io diedi? » Dissi, pur nella certezza che Holmes mi avrebbe, come sempre, contraddetto dimostrandomi che le cose erano andate in tutt’altro modo. E così fu:

«Credo proprio che la sua tesi non sia sostenibile: siamo in via Orefici ed è vero che a quell’ora la strada non è certamente affollata, ma qualcuno che passa c’è sempre, anche perché li vicino c’è un’osteria aperta fino a notte inoltrata; una scala appoggiata ad una finestra aperta, avrebbe certamente suscitato sospetti e allarme. La scala non c’entra! L’assassino arriva semplicemente guidando una carrozza o una vettura, la parcheggia proprio sotto la finestra, passa da cassetta a sopra la capote e si trova col parapetto della finestra più o meno all’altezza delle spalle. Ci vuole un niente per scavalcarlo ed entrare; l’ho sperimentato: la cosa funziona benissimo. tanto più che a quell’altezza la finestra è quasi completamente al buio, perché i lampioni a gas sono distanti, e lì la loro luce non arriva appieno. Una vettura, poi, parcheggiata in via orefici non suscita alcuna curiosità.»

«Può essere, Holmes, – dissi non proprio convinto – può essere… però la scala mi sembra più normale.»

«Certamente, ma come ho detto, Watson, non possibile! Ma veniamo a un’altra domanda: perché mai l’assassino dopo aver ucciso il Coltelli, non ha fatto altrettanto con la Zerbini, che lui sapeva benissimo essere in casa, aver assistito all’omicidio e, molto presumibilmente, aver riconosciuto chi l’aveva commesso? Perché non uccidere anche lei?»

«In effetti, – confermò serio il Conte – questa è una domanda che si fecero in molti a suo tempo, ma nessuno ha mai dato una risposta valida. Devo ritenere, che se anche lei, signor Holmes, se l’è posta, abbia anche un spiegazione adeguata e inconfutabile.»

«L’unica possibile! Non uccidere il testimone era nei piani dell’assassino: la donna doveva sopravvivere, perché, diversamente dal solito, è proprio la sua testimonianza l’elemento essenziale su cui l’assassino conta. Enrica deve riferire agli inquirenti che quell’uomo è Giuseppe Piccioni, che lei conosce per averlo incontrato in una qualche osteria e anche nei dintorni dell’oreficeria. Ma Piccioni non si trova, si è involato subito dopo l’omicidio e non è stato più ritrovato. In pratica costui non esiste e, di conseguenza, la Zerbini resta l’unica indiziabile ed indiziata.»

«Ma se è così, come si spiega il modo con cui il delitto è stato compiuto! – Intervenne il Marchese Marescotti – Perché mai per uccidere, l’assassino non ha usato un’arma più usuale, come il coltello che aveva sempre con se e, spesso, lo estraeva?… Perché portarsi dietro un martello, sbatterlo ripetutamente in testa a quel vecchio e nasconderlo poi in un cassetto? Sembra più un omicidio d’impulso e non premeditato, come lei, signor Holmes sta cercando di dimostrare..»

«E bravo il signor Marchese, mi congratulo con Lei! Non solo ha posto il problema, per altro giustissimo, ma ha dato anche la risposta, forse involontaria, ma corretta. Sì, sembra proprio un omicidio improvvisato… ma non lo è affatto! E’ l’assassino che voleva che tale apparisse! Mi spiego: sappiamo già ch’egli ha lasciato in vita la Zerbini, perché doveva testimoniare di conoscere l’assassino ed indicarlo nell’inesistente Giuseppe Piccioni. Ma c’è un altro motivo per non aver ucciso anche lei: la donna poteva diventare l’ideale colpevole dell’omicidio, tanto più se esso era avvenuto senza alcuna premeditazione, ma in uno scatto d’ira, come a seguito di un litigio inconciliabile; egli ha ucciso l’orefice a martellate per dare agli inquirenti un motivo in più per accusare la Zerbini e rinviarla a giudizio.»

Con una voce oltremodo seria, il Conte Paleotti osservò: «Quindi, l’assassino è il Piccioni… se è così lei, Signor Holmes, non ha risolto un gran che, perché alla fin fine le sue indagini l’hanno portato non a scoprire l’assassino, ma a confermare una cosa che tutti sapevano già e che la Zerbini aveva detto e ripetuto: l’assassino è Giuseppe Piccioni, persona che non si è rintracciata allora e tanto meno lo si potrà fare oggi, dopo tanti anni trascorsi.»

«Se così fosse, signor Conte, io mi ritirerei dall’incarico ricevuto e, ovviamente, senza onorario! Ma io non ho mai detto che l’assassino è Giuseppe Piccioni!»

A questo punto l’incomprensione fra tutti noi fu totale ed anche il silenzio che ne seguì. Fu di nuovo Tubertini a interromperlo dopo alcuni istanti e a porre ancora una volta la domanda con cui il discorso si era aperto.

«E allora, signor Holmes, ci dica, di grazia, chi ha ucciso Camillo Coltelli? Si può sapere?»

Il tono era stato più che sostenuto, seccato, ma Holmes non si scompose, anzi, sembrò voler esasperare di più l’attesa dei presenti, riempiendo lentamente la pipa e accendendosela con cura. Poi quasi distrattamente proclamò: «L’assassino è Angelo Amadori, macellaio, nato a Bologna nel 1844.»

Tutti noi rimanemmo allibiti, guardandoci l’un l’altro silenziosi come a chiederci chi fosse mai costui. Ancora alcuni momenti di silenziosa tensione, poi nuovamente Tubertini: «E da dove salta fuori questo?»

«Salta fuori dalla Zecca di Bologna e da tanti altri delitti commessi a cavallo degli anni Sessanta, quando qui operava una banda di delinquenti che insanguinarono la città per quattro o cinque anni.»

«A cavallo degli anni Sessanta? – Me ne uscii io incredulo – Ma son passati oltre vent’anni, Holmes! Cosa c’entra questo con l’omicidio Coltelli?»

«Proprio lei, Watson, mi fa questa domanda? Lei, che ieri ha affermato, e giustamente!, che “cause antiche hanno effetto dopo anni ed anni”! Cosa c’entra la Zecca con l’omicidio Coltelli? C’entra, c’entra, perché il bottino ricavato dalla rapina alla Zecca, eseguita fra gli altri da Angelo Amadori, e avvenuto il 16 luglio del 1861, fu di 1186 tondini d’oro e 22 medaglie d’argento… »

«E allora?»

«E’ tutto metallo prezioso ed è proprio qui che troviamo il movente dell’omicidio di Camillo Coltelli. Ma andiamo con ordine. Una quindicina di rapinatori, fra cui, come detto, l’Amadori, forse anche come capo, si trovano in mano quell’oro e argento che in un modo o nell’altro debbono monetizzare. Dalle indagini e dagli atti giudiziari ho appreso che un elemento della banda, certo Cesare Caselli era un ex orafo e che una piccola parte del bottino fu trovata presso di lui. Anzi, fu proprio per questo che venne individuata e catturata l’intera banda. Ma il resto, la parte maggiore del bottino, dov’è finita? Non si sa… scomparsa. Una cosa è certa: tranne questo Caselli, che ricordo era orafo, nessuno di quella banda avrebbe saputo cosa fare per trasformare in denaro quei preziosi metalli. Occorreva trovare qualcuno che li acquistasse senza tanti scrupoli.»

«Per farlo breve, un ricettatore….» Precisò Tubertini.

«Oddio, non so si possa definire così, forse è meglio dire uno a cui quella merce servisse, che giudicasse il prezzo conveniente e che non badasse tanto per il sottile….»

«Quindi per lei, Holmes, – insistette Tubertini, deciso, ma con meno impeto – Questo Amadori si rivolse a Camillo Coltelli…»

«Sì. Per me le cose sono andate così: Coltelli acquista i preziosi da Angelo Amadori e gli dà solo un anticipo, quello che aveva di liquido in casa, impegnandosi a pagare il resto non appena recuperato il contante. Amadori si fida, conosce Coltelli e non ha certo paura ch’egli non lo paghi, semmai è il Coltelli a dover aver paura di lui! Solo che quasi subito, siamo ancora nel 1861, il bandito è all’improvviso arrestato per associazione a delinquere e messo in isolamento con altri cento delinquenti, In pratica scompare forzatamente dalla circolazione e non è più rintracciabile. E’ anche presumibile che Coltelli abbia cercato, in un primo tempo, di trovare il modo di saldare il proprio debito, ma poi ha… come dire?... Lasciato stare?… Se ne è dimenticato?… Non ha potuto farlo?… Ci ha marciato sopra vista la situazione?... Non lo sapremo mai. Di certo c’è che l’Amadori, negli anni che passa in galera, non dimentica i soldi che deve avere dall’orefice, diventa sempre più assillato dalla vendetta e ha tutto il tempo per studiare come potrà attuarla. Insomma l’orefice è stato ucciso per non aver pagato un debito, e che debito!, alla mala.»

«Ammettendo che questo sia il movente, – m’intromisi io – ma come ha fatto lei, Holmes, fra più di cento imputati, a individuare l’assassino proprio in questo Angelo Amadori?

«Elementare, Watson, elementare…. Ho esaminato attentamente l’ultima parte della sentenza quella in cui sono elencate le condanne di tutti quei malavitosi, e ciò, grazie al Signor Testoni che me la traduceva.»

«Vi dirò – confermò Testoni agli altri – che mentre leggevo, non capivo cosa cercasse Holmes con essa, né tanto meno a cosa servisse per il caso Coltelli.»

«Va bene, va bene – intervenne nuovamente Tubertini – ma per dire che un assassino è un assassino, occorrono le prove! E dove sono queste prove?»

Holmes a questo punto, sembrò trasformarsi da pragmatico investigatore in insospettabile filosofo: «Un evento che converge su un fatto – disse – non costituisce una prova, neppure un indizio, ma resta semplicemente una coincidenza che non può portare a nulla. Se invece gli eventi convergenti sempre su quel fatto sono due, allora la cosa si fa molto ma molto interessante, tanto che i due eventi possono già considerarsi tendenzialmente, se non probatori, quanto meno indiziari. Se poi gli eventi sono tre, allora ogni dubbio è sciolto e quel fatto si può definitivamente considerare provato. Ebbene in quella sentenza le “coincidenze” sono appunto tre e, di conseguenza, viene dimostrato che Angelo Amadori, alias Giuseppe Piccioni, è l’assassino dell’orefice Camillo Coltelli.»

«E allora ci dica queste coincidenze che diventano prove!» Insistette Tubertini ritornando al suo solito tono esasperato.

«Certamente, signor Tubertini! Prima coincidenza… debole, debole, ma senz’altro indicativa: se ricordate, il capo del commando banditesco che assalì la Zecca fu chiamato dai complici “Anzel”, Angelo, e l’unico Angelo dei 110 imputati del processo e condannati nella sentenza, è Angelo Amadori. Seconda coincidenza: Angelo Amadori viene condannato a sedici anni di lavori forzati; è l’unico imputato ad avere quella pena, tutti gli altri  hanno pene o superiori o inferiori; sedici anni se li becca solo Angelo Amadori.»

«Ecco perché quando giunsi a quel nome della lista dei condannati, lei, signor Holmes, mi ha interrotto nella lettura della sentenza!» Disse trionfante Testoni, proprio come se avesse scoperto una cosa ritenuta inspiegabile e che da tempo lo assillava.»

Fu ancora Tubertini ad intervenire, e a chiedere nuove spiegazioni: «Si, bene, bene, ma cosa c’entra la pena a sedici anni inflitta a questo Amadori?».

«Basta verificare i tempi. La sentenza è dell’ottobre del 1864, aggiungiamo sedici anni di galera e arriviamo alla fine del 1880; ancora un po’ di tempo, un annetto, per reinserirsi nella vita normale, per assumere un’altra identità e per organizzarsi e si arriva alla fine del 1881, si arriva al 20 dicembre 1881, data dell’assassinio di Camillo Coltelli.»

«Mi scusi Holmes, - interloquì il Conte Paleotti - ma gli elementi che voi state illustrando, sono senza dubbio interessanti e suggestivi, ma mi sembrano alquanto forzati per sostenere un’accusa di omicidio. Valido il movente (oro e argento in grande quantità), sostanziosa la spinta psicologica (una vendetta sospirata per decenni e in carcere), impressionante la coincidenza di tempi e le modalità d’esecuzione… ma tuttavia, mi sembra che manchi di concretezza…. Come dire? Di elementi probatori più inconfutabili…»

«Giustissimo, signor Conte! Ma questi ci sono e come! Che ne direste di decine di prove testimoniali?»

«Le avete davvero?» Fu la domanda incredula di Paleotti.

«Sì, e qui veniamo all’ulteriore elemento di prova, a mio parere quello più importante, ma per farlo dobbiamo tornare alle sentenza, non per leggerla, ma per guardarla…»

Holmes girò lo sguardo su ciascuno di noi sorridendo, anzi, sogghignando, quasi a voler controllare se quella sua uscita di per sé incomprensibile, ci avesse sbalorditi, come in effetti era stato.

«Dovete sapere – spiegò – che allegata alla raccolta degli atti processuali, (sono migliaia di pagine stampate fitte, fitte), c’è una curiosissima incisione su cui sono ritratti uno per uno, tutti gli imputati, dietro la sbarra e in attesa di giudizio. Sono 108 facce visibilissime e distinguibilissime l’una dall’altra. Ovviamente, fra queste, c’è anche Angelo Amadori: naso non pronunciato ma a patata, occhi svegli e infossati sotto due ampie sopracciglia, grande barba nera ed incolta che si unisce ai baffi e alla capigliatura, anch’essi neri e arruffati; tutto il contrario delle descrizioni che ci hanno dato di Giuseppe Piccioni, che risulta rasato, senza baffi e barba e con cappelli bianchi pettinati a spazzola. Il biancore dei capelli può essere dovuto ai vent’anni trascorsi dalla rapina della Zecca all’omicidio Coltelli, ma le altre differenze sono talmente rilevanti e incisive che sembrano proprio essere volutamente create da uno che intenda cambiare connotati per non essere riconosciuto.»

«Intende dire che proprio le grandi differenze dei due soggetti dimostrano che la persona è la stessa?» Domandai io memore di alcuni antichi trattati di criminologia

«Dimostrano, Watson? No, non dimostrano nulla, sono solo un punto di partenza perché si trasformino in prova. E come ho fatto a trasformarli in prova? Sono andato da un pittore, Alessandro Guardassoni… Vi ricordate che vi ho chiesto, signor Testoni, quale fosse il miglior pittore e ritrattista sulla piazza di Bologna?

«E come no! In effetti vi indicai Alessandro Guardassoni. Mi ricordo anche, signor Holmes, che vi chiesi a cosa servisse un pittore in una indagine poliziesca e voi, come al solito, divagaste senza darmi risposta. Spero proprio che oggi diate soddisfazione a questa mia curiosità.»

Descrizione: Descrizione: Descrizione: C:\Users\Sandro\Desktop\DOCUMENTI IN CORSO\CARTELLE DOCUMENTI\AA SANDRO DOCUMENTI\BOLOGNA\ALBUM FOTO BOLOGNA\CHIESE\Caterina Saragozza\Complesso.jpg  Descrizione: Descrizione: C:\Users\Sandro\Desktop\SCHERLOK CD\000CAP 12_file\image004.jpg
Santa Caterina di Saragozza e, a destra,
gli affreschi del Guardassoni in navata centrale

«Lo sto facendo… – il sorriso di Holmes era indice di grande soddisfazione – Accompagnato da Luciano, sono andato in una chiesa moderna, ma bella, Santa Caterina di Saragozza, dove sempre lei, signor Testoni, mi aveva detto che il Guardassoni stava lavorando. Era su un pontone a dipingere non so quali grandi figure di santi sulla volta della navata, cosicché dovemmo raggiungerlo lassù. Soliti convenevoli, poi gli dissi la ragione per la quale avevo bisogno di lui: farmi una copia del ritratto di Amadori, ma invecchiandolo un po’, togliendogli barba e baffi e accorciandogli e imbiancandogli i capelli. Simpatico, questo Guardassoni! “Non ci sono problemi – mi assicurò – ma non capisco: tutti i miei clienti si fanno ritrarre come sono al momento, non come potrebbero essere fra vent’anni, anzi, se sono vecchi, si vogliano far ringiovanire il più possibile!” Comunque ribadì che non c’erano difficoltà e mi pregò di aspettare un momento che mi avrebbe accontentato subito. Gli consegnai l’incisione della sentenza, indicandogli quale fra tutti quei volti avrebbe dovuto invecchiare. Fece tutto sommato presto, una quindicina di minuti e quando mi porse il cartone su cui era stato fatto in carboncino il ritratto che avevo richiesto, mi sentii in dovere di congratularmi con lui per le indubbie capacità artistiche, poi lo pagai e me ne andai. Il giorno dopo ero in borgo Ballotte, dalla Zerbini, sempre con Luciano, che in questa occasione mi parve molto più contento del solito di avermi accompagnato.»

Chissà perché, ma ebbi l’impressione che quest’ultima frase non fosse stata tradotta da Luciano.

«Mi scusi, Holmes, – ironizzò Testoni – ma lei mi disse una volta che nel raccontare le cose io le romanzavo usando uno stile teatrale…. Mi sembra che lei mi stia copiando, o sbaglio?»

Descrizione: Descrizione: C:\Users\Sandro\Desktop\SCHERLOK CD\000CAP 12_file\image005.jpg
Angelo Amadori come appare nella stampa allegata alla sentenza

Descrizione: Descrizione: C:\Users\Sandro\Desktop\SCHERLOK CD\000CAP 12_file\image006.jpg
Angelo Amadori trasformato in Giuseppe Piccioni (falso d’autore)

«Ha ragione, signor Testoni, e mi scuso. Vengo subito al sodo. Enrica Zerbini, non appena mostratole il disegno fatto da Guardassoni ha subito riconosciuto Giuseppe Piccioni. Non solo, ha anche aggiunto: “Ma lei è davvero un mago… come ha fatto?”. L’identificazione era a mio avviso già decisiva, ma ho voluto avvalorarla ulteriormente e siccome eravamo in zona, siamo andati, io e Luciano, all’osteria Tagliavini e qui abbiamo ottenuto lo stesso risultato dall’oste e da diversi avventori: quello era il ritratto di Giuseppe Piccioni, alias Angelo Amadori.»

Holmes sembrò aver finito la sua relazione sui risultati ottenuti dalle sue indagini e Testoni ritenne opportuno esprimere la sua soddisfazione:

«Credo che si possa affermare senza ombra di dubbio che il caso Coltelli è chiuso: individuato l’assassino, scoperto il movente, precisate le modalità d’attuazione.

Gli altri assentirono in silenzio, con semplici cenni del capo.

 

Un mese dopo…
a Londra, in Baker Street 221-B, alle ore 11

 

Descrizione: Descrizione: C:\Users\Sandro\Desktop\SCHERLOK CD\000CAP 12_file\image007.jpg
La casa dove visse Sherlock Holmes, la targa che lo ricorda e il soggiorno del suo appartamento

 

Dopo la soluzione del caso Coltelli, avremmo voluto rimanere a Bologna ancora una decina di giorni per goderci la bellezza di questa città, ma ci giunse un cablo da Londra nel quale il mio amico Jabez Wilson, un negoziante che gestiva un piccolo banco di prestiti a fronte di pegni, richiedeva l’intervento di Holmes per un caso che l’aveva visto coinvolto con una non meglio identificata “Lega dei capelli rossi”; decidemmo pertanto di partire col primo treno diretto per Londra (il solito “Indian mail” proveniente da Brindisi”), dove arrivammo in circa venti ore. Qualche altro giorno perché Holmes riuscisse a risolvere quel curioso caso della “Lega”, salvando una banca da una clamorosa rapina e catturando in flagranza di reato la banda che l’aveva organizzata, poi un po’ di quiete, nel nostro appartamento di Baker Street, in attesa di altri clienti e di altre avventure.

Fu in quel periodo di ozio forzato e noioso, che giunse da Bologna una lettera indirizzata a Sherock Holmes sulla cui busta campeggiava uno stemma che riconobbi subito come quello dei Paleotti, perché ne avevo visti a decine dipinti o scolpiti nel loro palazzo. La porsi a Holmes, ma lui la respinse facendomi segno di aprirla io e di leggergliela:

«Lei lo sa – mi ricordò – che i contenuti delle lettere non hanno per me alcun interesse a meno che non abbiano rilevanza per delle indagini. In genere, nelle lettere, si scrivono stupidaggini o cose inutili! Vedrà che il Conte mi vuole avvisare di avermi spedito quanto dovutomi per la soluzione del caso Coltelli!»

Annui poco convinto e aprii la busta cercando di fare più in fretta possibile, perché ora ero ansioso di saper se la previsione fatta da Holmes sul suo contenuto fosse esatta. Era esatta, ma prima c’erano alcune righe molto gratificanti per il mio amico ed anche interessanti per la conclusione di quel caso bolognese. Lessi ad alta voce:

«Innanzi tutto Le rinnovo i miei più vivi complimenti per aver tanto egregiamente risolto il caso che vi avevo affidato. In merito La informo che Angelo Amadori, alias Giuseppe Piccioni, è stato catturato presso Livorno ed una volta messo sotto torchio, ha pienamente confessato di essere lui l’assassino di Camillo Coltelli; non solo, ma ha altresì confermato che il movente che lo aveva spinto a tale delitto è assolutamente quello da Lei supposto e dimostrato, così come le modalità con cui detto delitto è stato eseguito.»

Holmes m’interruppe con voce annoiata:

«Elementare, Watson elementare … non poteva che essere così!»

«Elementare, Holmes, elementare! – dissi scimmiottando il mio amico – però che tutto questo fosse scritto sulla lettera non l’aveva mica previsto, vero Holmes? Ma andiamo avanti con la lettura, che è meglio: “… Conseguentemente ho provveduto ad accreditare a vostro nome, presso l’agenzia di Baker Street della Abbey National Bank il compenso dovutoLe, integrato dai rimborsi spese sostenute da Lei e dal Dott. Watson per la trasferta a Bologna e relativo soggiorno….”. Questo, invece, è stato esattamente previsto da lei, Holmes, complimenti! Però c’è anche dell’altro, stia a sentire: “ …. Devo però confessarLe una cosa: pur procedendo al presente pagamento, Le posso assicurare che la Sua splendida prestazione investigativa non mi è costata nulla … “»

Ancora una volta Holmes m’interruppe:

«Lo sapevo! Più che elementare, era ovvio che fosse così….»

«Adesso, però, me la spiega questa ovvietà, che poi controllerò sulla lettera se ha indovinato anche questo.»

«Si ricorda anche che il Conte ebbe a dire che voleva assolutamente scoprire l’assassino del Coltelli, perché era un suo carissimo amico d’infanzia e non sopportava che chi lo aveva ucciso rimanesse impunito?»

«Sì, come potrei scordarmelo! Le dirò che mi sembrava alquanto eccessiva una siffatta amicizia.»

«In effetti… Si ricorda, poi, Watson, quel “patto”, che anticamente a Bologna l’ammalato faceva firmare al proprio medico, in modo che fosse pagato solo in casa di guarigione e che il Conte mi propose di accettare anche per l’incarico che mi affidava? »

«Sì, certo… ne ho preso nota anche nei miei appunti. Espressi anche il parere contrario a che lei accettasse di non essere pagato, in caso di fallimento.»

«Ancora: si è mai chiesto, Watson, perché quando finii le indagini e dissi al Conte che sapevo chi era l’assassino, egli volle che lo dicessi in altra sede, a casa sua, dove abbiamo trovato quei tre gentiluomini?»

«Sì, ricordo… E ricordo anche i loro nomi: il barone Canetoli, il marchese Marescotti e il signor Tubertini. Le dirò anzi che quest’ultimo, il Tubertini, era particolarmente ansioso e scostante nei suoi interventi. Ma dove vuole arrivare, Holmes, con tutte queste domande?»

«Voglia arrivare a dire che la profonda amicizia del Conte Paleotti con l’orefice ci sarà anche stata, ma non è il vero motivo che lo spingeva a voler scoprire l’assassino. Il vero motivo era una scommessa, semplicemente una scommessa, a mio parere fatta con i tre davanti ai quali ho poi esposto il risultato delle mie indagini. Ma vada avanti con la lettera, Watson, vada avanti che lì sarà di certo spiegato tutto!»

«Una scommessa? Mah! Vediamo… Dov’eravamo rimasti… ah, qui: “… in effetti la sua splendida prestazione non mi è costata nulla. Deve infatti sapere che quando a Londra il Commissario Lestrade mi parlò di Lei, dicendomi che sarebbe stato l’unico a poter risolvere un delitto insoluto da anni, io ne fui tanto convinto che, tornato a casa, ne parlai con i miei amici (quelli che avete conosciuto durante la cena a casa mia), per convincerli a tentare insieme a me di avvalerci delle Sue capacità investigative. Loro, al contrario, furono del tutto increduli che ciò fosse possibile e, ridendo, mi presero anche in giro dandomi dello sprovveduto e del credulone. Fui toccato nell’orgoglio e allora li sfidai, proponendo una scommessa: avrei chiamato io a Bologna Sherlock Holmes e gli avrei affidato io l’incarico di scoprire l’assassino di Coltelli. Se vi fosse riuscito, però, sarebbero stati loro a pagare. Così è stato!…” Furbo, il Conte: in un modo o nell’altro avrebbe sempre vinto la scommessa, o almeno non l’avrebbe mai persa! Se lei, Holmes, scopriva l’assassino, il suo onorario sarebbe stato a carico di quei tre, se non lo scopriva, scattava il “patto di guarigione” e lui non avrebbe pagato nulla! Bel tipo, veramente un bel tipo il suo cliente.»

«Ne convengo, Watson, ma penso comunque che non sia stato scorretto nel nascondere il vero motivo per il quale mi ha affidato l’incarico. Noi inglesi siamo i re delle scommesse e non dobbiamo certo scandalizzarci se altri fanno altrettanto e fanno di tutto per poterle vincere o averne il minor danno possibile.»

«Se lei la pensa così, non so più che dirle… Torno alla lettere che però termina coi soliti eccessivi salamelecchi: “Rinnovo i miei ringraziamenti per l’ottimo lavoro svolto e, assicurandole che farò il possibile per incontrarLa nel caso venissi a Londra, Le porgo i miei più doverosi ossequi che prego estendere anche all’ottimo Dott. Watson. Con deferenza…ecc. cc.”, firmato: “N.H. Michele dei conti Paleotti.»

Ripiegai la lettera e tentai di rimetterla nella busta per consegnarla a Holmes, ma nel farlo, il foglio sembrò incepparsi e non volervi entrare. Guardai dentro e vidi che c’era un cartoncino bianchissimo e piegato in due. Lo estrassi e lo aprii cercando di leggerne il contenuto, senza però riuscirci essendo scritto in italiano.

«Cos’è?» Mi chiesa Holmes.

«Come, lei non lo sa? Dov’è finita la sua scienza deduttiva?»

Guardai di nuovo il cartoncino prima di riporlo nella busta e consegnare il tutto ad Holmes, e mi accorsi così che fra le righe scritte in italiano e, quindi, incomprensibili, apparivano però due nomi e cognomi leggibilissimi. Feci un grande sorriso di soddisfazione, intuendo di cosa si trattasse, e guardando il grande detective dissi:

«Elementare, Holmes, elementare… Luciano ed Enrica annunciano il loro matrimonio!»

FINE

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State leggendo il romanzo giallo SHERLOCK HOLMES A BOLOGNA di Sandro Samoggia

 

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