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 …quanti scacchi ha lo stemma dei Pepoli?... Veronica era nell’appartamentino di Ànghelos in via
  dell’Inferno, dove lui le aveva preparato una cenetta con spaghetti
  all’amatriciana e un’insalatona a base di feta,
  cose che a fine pasto meritarono i complimenti della ragazza. Poi, Ànghelos prese in mano la copia del nuovo
  messaggio per leggerselo mentalmente e tentare in un modo o nell’altro di
  decifrarlo. Poi si espresse: «In se per se, il messaggio non è per niente
  complicato perché indica un quadrato di undici caselle per lato, su cui
  bisogna partire dalla seconda della prima fila, per contarne sette verso il
  basso, poi cinque a destra… Solo l’ultimo verso crea qualche difficoltà, ma
  il vero problema è un altro…» Fu Veronica a terminare la frase: «… sapere dove si trova questo quadrato! » Poi la ragazza, vedendo Ànghelos molto
  demoralizzato, cercò di risollevarlo cambiando discorso, pur non
  allontanandosi più di tanto dall’argomento: «Ma in fondo, Ànghelos, cosa stiamo cercando? Da
  circa un mese stiamo seguendo una caccia al tesoro che ci fa impazzire, anche
  se non nascondo che il divertimento e l’interesse sono enormemente superiori
  all’impazzimento. Ma in questa caccia, il tesoro qual è? Se infatti lo
  sapessimo, potremmo valutare meglio se è il caso di continuarla o no.» Ànghelos si alzò, si avvicinò ai fornelli e preparò
  una moka di caffè mettendola poi sul fuoco. Tornato a sedere vicino alla
  ragazza, la rassicurò: «Credimi, Veronica, vale la pena continuare. Devi
  infatti pensare che i Pepoli, nella prima metà del ‘300 erano forse la
  famiglia in assoluto più ricca non di Bologna, ma d’Italia. Che avessero
  quindi delle ricchezze più o meno nascoste in una qualche parte, è da
  considerare non una semplice eventualità, ma una certezza.» «Quindi ciò che cerchiamo è a tutti gli effetti un
  tesoro, cioè monete d’oro e/o gioielli.» «Per me sì. » «Ma perché mai i Pepoli lo avrebbero nascosto?» 
 
 «La prendo alla lontana. I Pepoli furono, fra alterne
  vicende, signori di Bologna in tre specifici periodi: dal 1306 al 1322, con
  Romeo, dal 1337 al 1347 con suo figlio Taddeo e dal 1347 al 1350 con Giacomo
  e Giovanni, a loro volta figli di Taddeo e, quindi, nipoti di Romeo. Ho detto
  “fra alterne vicende”, perche in quell’epoca, gli alti e bassi di una famiglia
  potente erano all’ordine del giorno e quando cadeva in disgrazia, la norma
  era, oltre all’esilio, la confisca dei beni. Ciò capitò ripetutamente sia a
  Romeo, che a Taddeo, che a Giacomo e Giovanni e quindi che qualcuno d’essi
  abbia nascosto dei beni per ritrovarli quando fosse tornata la fortuna, è
  normale.» «Hai parlato di Giacomo e Giovanni … hai notato,
  manca Aldo e il trio è fatto!» La caffettiera sbuffò rumorosa accompagnando la
  risata di Ànghelos che si alzò, versò il caffè in due tazzine, ne porse una a
  Veronica e si risedette. Veronica lo ringraziò poi chiese: «Tu pensi che Rosati possa risolvere il nuovo
  enigma?» «Ci spero proprio, se no non ci resta che… ho quasi
  paura di dirlo… sperare ancora una volta in un aiuto esterno. Chi si è fatto
  vivo per indicarci il Campanile di San Pietro, potrebbe suggerirci la nuova
  soluzione. Ma c’è un ma…» «Che ma?» «Non sappiamo se questo sconosciuto sia a conoscenza
  del testo dell’indovinello.» «Se era a conoscenza del precedente, dovrebbe
  conoscere anche il nuovo.» «Non è detto.» 
 L’uomo… … non
  sapeva nulla del contenuto del nuovo enigma. Le
  informazioni sui precedenti messaggi firmati P.D.M. le aveva quasi tutte
  apprese entrando in casa di Ànghelos, ma da quando era stato ritrovato quello
  del campanile di San Pietro, il greco non era più uscito da casa. Se i tre
  gliel’avessero fatta a decifrare il nuovo indovinello, problemi non ce ne sarebbero
  stati, perché si sarebbero dovuti mettere in moto e, seguendoli, anche lui
  avrebbe partecipato alla nuova indagine. Se invece non avessero saputo
  interpretare il messaggio, allora le cose si complicavano, perché l’uomo, non
  conoscendone il contenuto, non avrebbe potuto in alcun modo giungere alla
  meta. Non poteva correre questo rischio. Doveva assolutamente entrare in
  possesso di quell’enigma per risolverlo ed eventualmente creare un nuovo
  contatto con quei tre e indirizzarli dov’era necessario che andassero. E se
  neanche lui avesse decifrato l’indovinello? Stupidaggini,
  l’uomo era convinto che non sarebbe stato possibile. 
 
 Solita riunione nello studio di via Galliera e
  solito indaffarato dialogo fra i tre per comprendere e risolvere il nuovo
  enigma di quel maledetto P.D.B. Parlò Veronica: «Parlando ieri con Ànghelos abbiamo stabilito che
  l’indovinello si riferisce a un quadrato composto da undici caselle per lato.
  Lei, avvocato, è d’accordo?» «Sì, sono d'accordo., e poiché nell’ultimo verso si
  parla di “nero” è sottinteso che ci
  sia anche il bianco; insomma, gli undici quadrati per lato sono bianchi e
  neri. Una scacchiera, insomma. Ti sembra?» «Siccome si tratta di Pepoli – suggerì Ànghelos –
  gli scacchi bianchi e neri sono del tutto coerenti: è lo stemma di famiglia.» «Quanti scacchi ha lo stemma dei Pepoli?» Domandò
  candidamente Veronica. La domanda sorprese i due che si guardarono
  reciprocamente per vedere se l’altro avrebbe saputo rispondere. «Non saprei – disse Ànghelos – gli stemmi sono tanti
  e di tutte le misure. Non credo vi sia un numero canonico e codificato.» «E poi – aggiunse Rosati – gli stemmi sono per lo
  più rettangolari e quindi non possono avere un numero equivalente di quadrati
  per lato. » «Se escludiamo lo stemma, – azzardò Ànghelos –
  potrebbe trattarsi anche di un pavimento in mattonelle. L’eventualità è anche
  in linea coi criteri seguiti per nascondere i messaggi, tutti sepolti dentro
  una pietra, dietro antichi mattoni, sotto i gradini di una scala.» «E’ vero – gli confermò Rosati – solo che se la
  risposta è un pavimento, non necessariamente deve essere collegato ai Pepoli
  e quindi le possibilità si allargano a dismisura.» Detto questo Rosati si alzò e guardò l’ora,
  rivolgendosi di nuovo agli amici: «Come sempre, suggerisco di sospendere questo
  incontro, perché mi sembra che più confrontiamo le nostre idee e più ci
  areniamo. Forse un bel sonno ristoratore, lontano dall’ossessione di scoprire
  l’indovinello e dall’ansia di non riuscirci, ci libererà la mente per altre
  ipotesi più proficue. Che ne dite.» «Sono d’accordo – disse Ànghelos – ci vediamo domani
  e valuteremo nuove possibilità se ci vengono in mente. Io vado… Tu Veronica?» «Ho ancora un po’ da fare nello studio, ci sentiamo
  dopo.» 
 L’uomo… … socchiuse
  lento la porta, controllò che sul pianerottolo non vi fosse nessuno, quindi,
  come aveva fatto diverse altre volte, uscì dall’appartamento di Ànghelos, ma
  stavolta la sua espressione era di accentuato malumore, perché l’agenda di
  Ànghelos aveva le ultime pagine, quelle riferite ai tre, quattro giorni
  precedenti, completamente in bianco e, tanto meno, riportava la trascrizione
  dell’indovinello rinvenuto nel trentatreesimo gradino del campanile di San
  Pietro. Ora il
  problema era serio e non c’era altra possibilità: quei tre “dovevano” risolverselo
  da soli l’indovinello, ma l’uomo non era per nulla convinto che ci sarebbero
  riusciti, nonostante che avessero dimostrato un notevole intuito nei casi
  precedenti e una profondissima conoscenza della storia, dei personaggi e dei
  monumenti bolognesi. Occorreva quindi attendere almeno qualche giorno: se i
  tre si mettevano in moto, evidentemente avevano scoperto qualcosa, se nulla
  succedeva la ricerca era finita per tutti. 
 Uscito Ànghelos dallo studio, Rosati si mosse anche
  lui. «Chiude lei Veronica?» «Sì, ci penso io, non si preoccupi, avvocato. Prima,
  però, vorrei farle una domanda: se giungessimo alla fine di questa caccia
  predisposta settecento anni fa da un buontempone che si firma “P.D.B.”, che cosa ci troveremmo in
  mano? In altre parole, lei, avvocato, ha un’idea di che cosa stiamo
  cercando?» «Secondo me dovremmo trovare un tesoro, nulla di più
  e nulla di meno. Ma credo che lei voglia sapere cos’è questo tesoro, com’è
  stato accumulato e perché è stato nascosto.» «Infatti.» Rosati ritornò alla sua poltrona e vi si stravaccò
  sopra, quasi a voler preavvertire che non sarebbe stato un racconto breve.
  Poi cominciò: 
 «Taddeo Pepoli divenne Signore di Bologna nel 1337,
  per pubblica acclamazione e la governò sicuramente bene, tanto che quando morì,
  dieci anni dopo, i suoi concittadini lo piansero sinceramente, perché erano
  convinti di aver perso un ottimo governante. Anche in politica estera (come
  diremmo oggi) fu oculato e molto diplomatico, riuscendo a riappacificare Bologna
  con lo Stato Pontificio, alleandosi coi Visconti e, contemporaneamente, aiutando
  Venezia nella guerra contro gli Scaligeri di Verona. Era il 1338 e Taddeo
  mandò alla Serenissima dieci plotoni fra fanti e cavalieri al comando
  dell’amico Ostasio, signore di Ravenna, aiutando
  così il Doge Francesco Dandolo a
  conquistare Padova e Treviso fino a quel momento sotto la potestà veronese. Così
  Taddeo si meritò l’onorificenza di Patrizio della Serenissima, trasmissibile
  agli eredi. Qualche secolo dopo, quando a Padova fu realizzato il “Prato
  della Valle”, con le statue di tutti i benefattori e grandi uomini della Repubblica
  Veneta, vi trovò posto anche l’effige di Taddeo, rappresentato, però, non
  come condottiero o Signore d’una città, ma come giureconsulto, professore
  universitario, quale in effetti era.» Veronica guardò Rosati, non senza esprimere la sua insoddisfazione
  con una piccolo smorfia: «Va bene avvocato, ma ripeto: cosa troveremo alla
  fine dei nostri sforzi, sempre che troveremo qualcosa?» «Era solo un preambolo per risponderle, Veronica,
  non s’immusonisca. Dunque… Io non credo che Taddeo abbia mandato un esercito
  in aiuto a Venezia solo per la bella faccia del Doge o per la nomina di
  Patrizio della Serenissima. Che Taddeo fosse un uomo di valore, con un’ottima
  reputazione come studioso e ben accetto come politico sia dentro Bologna che
  fuori, è un fatto assodato, però era sempre figlio di un banchiere (o
  usuraio, secondo i punti di vista) e, quindi, non scevro da una certa
  passione per il denaro...» 
 «Capito! – interruppe Veronica – A suo parere,
  avvocato, per quell’intervento militare Taddeo si fece lautamente pagare dai
  veneziani e, quindi, si trovò un ulteriore tesoro in casa, quello che stiamo
  cercando noi. Dico bene?» «Precisamente. Penso anche che lo nascondesse
  conscio com’era che la fortuna dei Signori del tempo potesse facilmente mutare,
  passando in un batter d’occhio dal potere alla rovina. D’altra parte Taddeo
  si ricordava bene di quando, vent’anni prima, suo padre Romeo pochi mesi dopo
  dall’essere stato osannato dai cittadini per la grandiosa festa organizzata
  in onore della sua laurea, fu cacciato da Bologna a furor
  di popolo, rischiando addirittura di essere linciato.» 
 L’uomo… … era
  oltremodo rabbuiato, quasi furibondo. Il non aver rinvenuto nulla a casa di
  Ànghelos lo aveva lascato più che preoccupato, inquieto e nella sua mente
  stava pensando e ripensando a come fare per conoscere il testo del nuovo
  indovinello. Come già
  era nelle sue intenzioni, avrebbe aspettato che i tre si mettessero in moto e
  in un modo o nell’altro, seguendone gli spostamenti, anche lui non sarebbe
  mancato al prossimo appuntamento, ovunque l’enigma l’avesse indicato. Ma
  questo non lo soddisfaceva. Voleva leggere l’indovinello, voleva risolverlo,
  voleva assumerne il merito. All’improvviso
  la sua agitazione si fece molto meno tesa come se avesse intravvisto una
  soluzione al problema che lo assillava. Sì, una
  strada c’era ed era quella di intervenire presso la curia di San Pietro, rivolgendosi
  a monsignor Bolognesi che conosceva bene essendo stati in gioventù compagni
  di liceo. Questo aveva partecipato alla ricerca nel campanile e quindi ne
  doveva necessariamente conoscerne il risultato. Prese in
  mano il cellulare, cercò un numero di telefono nell’agendina e dette l’imput alla telefonata. 
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