Dal sito::  www.miabologna.it
State leggendo il romanzo giallo SHERLOCK HOLMES A BOLOGNA di Sandro Samoggia

 

INDICE GENERALE DEI SITO
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INDICE DEL ROMANZO

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INDICE “STORIA E FANTASIA
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CAPITOLO 1
Hotel Brun, 26 giugno 1885, ore 10,30


«Non male questa città, vero Watson?»

«Direi bella, decisamente bella, Holmes, ma anche curiosa, ha visto quanti portici ci sono?»

«E come non avrei potuto vederli? Son dappertutto, davvero straordinari.»

«Secondo quello che ho letto sull’Enciclopedia Britannica sembrerebbe che siano collegati strettamente all’esistenza dell’Università e che almeno all’inizio, servissero ad ospitare gli accompagnatori e la servitù di chi veniva a studiare a Bologna.

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Il Dott. Watson e Sherlock Holme
in una classica iconografia inglese

«Lei, Watson, si fida troppo dell’Enciclopedia Britannica … Meglio dar credito all’ intuito deduttivo. Quello non sbaglia mai!»

«E sui portici di Bologna cosa le dice il suo intuito deduttivo, di cui pur tuttavia mi fido moltissimo?»

«Semplici abusi edilizi protratti nel tempo e tollerati dalle autorità, se non addirittura autorizzati.»

«Sarà, caro amico mio, ma se così fosse si tratterebbe del più spaventoso abuso edilizio di ogni epoca e di ogni dove, perché a Bologna ci sono ben ventitré miglia di portici, stando sempre a quello che dice la nostra amata Enciclopedia.»

«Ventitré miglia? Davvero straordinario! Calcolando che la distanza da una colonna all’altra potrebbe essere di circa due iarde e mezzo, se ne deduce che in questa città ci sono la bellezza di oltre quindicimila archi di portico…»


Un’eterogenea e spettacolare fila di portici, con le loro colonne, gli archi e le travature, in via Saragozza

«Questa, però, Holmes, non è una delle sue famose deduzioni, è un semplice calcolo matematico che tutti possono fare. Con questo metodo, avrebbe potuto anche precisare che oltre ai quindicimila archi di portico, vi sono altrettante colonne di sostegno, non le pare?»

«Quindicimila colonne? E no, carissimo Watson, le colonne sono molte di più!»

A questa affermazione di Holmes, rimasi interdetto e, guardandolo di sottocchio e in silenzio, restai in attesa delle spiegazione ch’egli, come al solito, avrebbe certamente dato. Questa volta, però, non aprì bocca e si alzò lentamente dalla poltrona in cui era adagiato, per prendere la sua borsa da viaggio, aprirla ed estrarne pipa, tabacchiera e fiammiferi; poi, sempre in silenzio, si diresse verso la grande finestra della stanza d’albergo in cui ci trovavamo e, quasi a voler ancor più pungolare la mia impazienza, si mise a caricare la pipa e ad accenderla con studiata lentezza, per assaporarne poi con serena voluttà le prime boccate di fumo.

A questo punto non resistetti e sbottai: «Allora, Holmes, perché le colonne sono di più degli archi?»


 L’hotel Brun in una foto d’epoca, prima della
demolizione conseguente ai bombardamenti del ‘44

Holmes si disinteressò della mia impaziente insistenza, e guardandosi intorno, osservò: «Bello questo albergo… Hotel Brun, vero?»

«Sì, Holmes, Hotel Brun… Ma non cambi discorso….»

«Quando l’ho visto mi è sembrato un edificio molto antico.»

«Sì, ha quattro secoli di vita. Prima di diventare un albergo era un palazzo nobiliare, palazzo Ghisileri, costruito ai primi del ‘500, così almeno specifica la guida che ho consultato prima di venire a Bologna. Ma vogliamo tornare all’argomento di cui stavamo parlando?»

«Qual era pure, Watson?» Mi domandò Holmes facendo finta di cadere dalle nuvole.

«Bologna, i suoi portici e le loro colonne.»

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Portici in via Castiglione

«Ah, già, i portici di Bologna: lei, Watson, diceva che ce ne sono per ventitre miglia con ben quindicimila archi e altrettante colonne… davvero straordinario!»

«Sì, sì, Holmes, è straordinario, l’ha già detto, ma poi ha anche precisato che le colonne per sostenere il tutto sono molte di più. E perché mai?»

«Elementary, my dear Watson, Elementary (Elementare, Watson, elementare)! Non ha mai pensato che per sostenere un arco occorrono due colonne, e se gli archi sono due, le colonne diventano tre, per cui se un portico ha, per esempio, cinque archi, le colonne debbono essere necessariamente sei? E se gli archi sono nove, le colonne dieci?… E così via, un numero di colonna sempre maggiore d’una unità di quello degli archi…»

Il discorso di Holmes fu interrotto da un lieve bussare alla porta. Era il cameriere di stanza che chiedeva di entrare per comunicarci qualcosa. Ricevuto il consenso questi aprì la porta e restando impettito sul corridoio, annunciò: «The illustrious Count Michele Paleotti is down in the atrium to be received by your Lordships…... I owe it to sit him in the room or prefer to meet him downstairs? (L’illustrissimo signor Conte Michele Paleotti è giù in atrio per essere ricevuto dalle Vostre Signorie. Lo debbo far accomodare in stanza o preferiscono incontrarlo da basso?)»

Io ed Holmes aspettavamo quel signore, perché era quello che ci aveva fatto venire a Bologna, e anzi c’eravamo meravigliati che giorni prima, non ci avesse accolto alla stazione; c’era però un suo incaricato, che dopo aver portato le scuse del Conte, ci aveva accompagnati in albergo in carrozza. All’annuncio che finalmente avremmo incontrato questo nobile bolognese, ci guardammo e dopo un breve reciproco parlottio fatto sottovoce, decidemmo che per motivi di riservatezza era meglio farlo salire, piuttosto che incontrarlo da basso, aggiungendo che non appena fosse giunto in stanza, venisse servito il te.

«Certainly, gentlemen. (Certamente signori). »

Mentre il cameriere usciva Holmes mi sussurrò: «Non ha un bell’inglese, quel servo.»

«Meno male che comunque lo parla e si fa capire… Non credo che siano in molti qui a Bologna a conoscere la nostra lingua.»

«Per fortuna che il Conte Paleotti la sa.»

Holmes aspirò dalla pipa alcune ampie boccate di fumo, e dopo averle disperse fuori dalla finestra, vi si affacciò guardando fuori: «Come si chiama questa via?»

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La facciato dell’Hotel Brun sulla parte di  via U. Bassi,
al tempo denominato Strada di San Felice

«Strada di San Felice, ma altro non è che un tratto della Via Emilia, una vecchia strada consolare romana che univa il mare al centro del nord Italia.»

«Vedo che tranne qui di fronte, è una via abbastanza stretta, quasi angusta. Altro che strada consolare, questa sembra un’insulsa viuzza, un viottolo di un quartiere degradato!»

Non potei dire la mia al riguardo, perché fummo interrotti dal nuovo ticchettio alla porta e dall’approssimato parlare inglese del cameriere: «Gentlemen, can I do accommodate Count Michele Paleotti? (Signori, posso fare accomodare l’illustrissimo Conte Michele Paleotti?) »

«Certainly (Certamente)!»

La porta si aprì e con un gran sorriso seguito da un breve inchino della testa, il Conte Paleotti entrò nella camera tendendo la mano verso di noi: «Nice to meet you, Dottor Holmes and Mister Watson. (Lietissimo di conoscervi, Dottor Holmes e Signor Watson).»

Era attorno alla settantina ma dava l’idea di essere più giovane e non di poco per il sorriso un po’ spavaldo, l’espressione bonaria che aveva e che non era occasionale, e l’atteggiamento decisamente aperto e spontaneo,.

«Il piacere è nostro, Illustre Conte Paleotti» Dissi, con tono un po’ piccato per il fatto che il mio meritato titolo di dottore fosse stato attribuito ad Holmes. Poi aggiunsi: «Il suo inglese è davvero splendido. Complimenti!»

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Cristina Dudley Paleotti
in un ritratto di F. Jakob Voet

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Gli stemmi dei Paleotti e dei Northumberland

«Grazie, ma noi Paleotti abbiamo un buon rapporto con l’Inghilterra, da quando un paio di secoli fa un nostro antenato ebbe a sposare Cristina Dudley, dei duchi di Northumberland e conti di Warwick…»

«Ah, però, i duchi di Northumberland! – esclamai sorpresissimo – una delle famiglie più altolocate del nostro Paese e più vicine alla corona inglese! È noto che Robert Dudley fu anche amante di Elisabetta Ia e promesso sposo di Maria Stuarda. Mica male come parentela, illustrissimo signor Conte.»

Paleotti scosse leggermente la testa: «Si vede che i Dudley hanno una tara genetica, perché anche Cristina, nei suoi quasi sessant’anni di vita a Bologna, ne diede parecchi di scandali… Ma sono cose passate e ormai dimenticate … Veniamo a noi e alla ragione per la quale vi ho fatti venire qui da Londra.»

«Mi sembra giusto. – confermò Holmes – Ma accomodiamoci in salotto. Fra breve dovrebbe arrivare anche il te. Si parla molto meglio davanti ad una bella tazza fumante.»

Ci sedemmo nel salotto della stanza e mentre ci servivano il te, il Conte s’informò su com’era andato il viaggio da Londra a Bologna.

«Splendido! – risposi convinto – abbiamo preso l’” Indian Mail” e dopo venti ore appena, siamo scesi qui a Bologna… alle sei dell’altro ieri. A proposito grazie di averci inviato la sua carrozza per portarci all’albergo.»

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Locandina inglese che pubblicizza
la linea Londra Bologna (Brindisi)

«Figuriamoci, dovere! Anzi, mi scuso io con lor signori di non essere potuto venire personalmente a ricevervi. Ma sapete come vanno le cose…. gli affari….»

Le chiacchiere continuarono e al termine il Conte volle sottolineare il piacere della colazione appena conclusa: «Grazie, grazie davvero, era da svariato tempo che non gustavo un te come questo.»

«Per la verità – tenne a precisare Holmes – siamo noi a dovervi ringraziare, signor Conte, dal momento che qui, a Bologna, siamo suoi ospiti e completamente a suo carico, per cui anche questa spesa ve la troverete addebitata dall’hotel.»

«È vero, dottor Holmes… ma grazie lo stesso! A proposito di spese, dovremmo anche parlare del vostro onorario, ovviamente da aggiungere ai rimborsi per viaggio e soggiorno.»


Medico bolognesi al capezzale dell’ammalato…
“che il ciel me la mandi buona” (stampa del Mitelli)

«Ovviamente… Per quanto concerne il mio compenso, esso dipenderà anche dalla difficoltà del caso che intende affidarmi e di cui, per la verità, non so ancora nulla; ma tengo ad avvisarla, signor Conte, che i miei onorari investigativi sono abbastanza elevati …»

Paleotti prese uno dei pasticcini rimasto sul vassoio, lo guardò attentamente prima di porselo in bocca, poi, accomodandosi meglio sulla poltrona, quasi a voler essere più pronto ad esprimere il proprio pensiero, disse: «Non ne dubito, dottor Holmes, e credo che le sue richieste siano del tutto giustificate, vista la fama. Ma anch’io debbo avvisarla di un fatto: gli antichi, famosi medici di Bologna, prima di curare un ammalato, sottoscrivevano il cosiddetto “patto di guarigione”, un contratto in cui si prevedeva che il medico fosse pagato solo se il paziente guariva. Vorrei applicare questo principio anche nel nostro rapporto: il suo onorario, quale che sia, sarà de me pagato e integralmente, solo se il risultato delle indagini sarà positivo. Voi sareste d’accordo?»

«Sfida molto interessante, signor Conte, direi quasi intrigante. Lei cosa ne dice, Watson?»

Io non nascosi la mia perplessità e nel rispondere tenni un tono quasi di rassegnazione: «Caro Holmes inutile chiedermi un parere quando è evidente che lei ha già preso la sua decisione: ho visto dal suo sguardo che intende accettare al buio questo incarico… prima, però, cerchi almeno di sapere di che sfida si tratta.»

Holmes mi guardò e annuendo con un lieve cenno del capo, si rivolse a Paleotti: «Il mio amico Watson è insostituibile. Allora, Signor Conte, quale sarà il mio compito?»


Via degli Orefici in una cartolina ottocentesca

«Scoprire l’assassino dell’orefice Camillo Coltelli, avvenuto qui a Bologna, nella notte fra il 19 e il 20 dicembre del 1882.»

A questo punto non potei certo tacere, comprendendo benissimo come l’impresa che si richiedeva al mio amico Holmes fosse decisamente impossibile: «Oltre due anni fa? E come si fa a scoprire l’assassino di un delitto dopo tanto tempo? Io penso, Holmes, che sarà opportuno ringraziare il Conte per la fiducia accordataci e per l’ospitalità dataci in questi giorni e ritornarcene a Londra.»

«Caro Watson, non sono d’accordo. Così posta, la sfida è ancor più affascinante. E poi, anche se la perdessi… non è forse lei che ha detto che Bologna e bella ed interessante?»

«E questo che c’entra?»

«Elementare, Watson, elementare: se rinunciamo all’incarico non avremo tempo per visitarla come si deve. Se accettiamo, dovremo soggiornarci e quindi conoscerla meglio.Mi sorrise per rivolgersi poi a Paleotti con fare cortesemente deciso – Accetto le sue condizioni, signor Conte, ma ora mi parli di quello che è successo due anni fa a questo orefice Coltelli.»

Dopo essersi messo in bocca un altro pasticcino e dopo un attimo d’attesa per poterne gustare la squisitezza, il Conte diede il via al suo racconto: «Potrei cominciare dal giorno dell’anniversario del mio matrimonio, quando mi recai nel negozio dell’Orefice Coltelli, per scegliere il regalo da fare a mia moglie...»

 

Anni Prima…
…in via Orefici, il 14 novembre 1882, alle ore 18

Il Conte Paleotti entrò nell’oreficeria “All’insegna delle tre spade” e salutò amichevolmente il vecchio titolare Camillo Coltelli: «Ban , Millèin”! (Buon giorno Camillino)! »

Coltelli contraccambiò con un altrettanto cordiale: «Mo guerda chi è que, al mi amig Paleòt! Cum vela? (Ma guarda chi c’è qui, il mio amico Paleotti! Come va?)»

«Bene, anzi, benissimo, sennonché … non so come dire… insomma fra tre giorni ci sarà l’anniversario del mio matrimonio e sono costretto a festeggiarlo…»

«Cosa c’è poi mai da festeggiare in un matrimonio, io non lo so proprio!»

«Per forza, Camillo, tu sei sempre stato un libertino impenitente e questi problemi non li puoi conoscere e, ovviamente, non puoi conoscere le spese che ci sono in un matrimonio, soprattutto in occasione degli anniversari. Ho già messo fuori un patrimonio per organizzare il ricevimento che farò a palazzo.»

Camillo Coltelli sorrise: «No, non ne conosco di queste spese! Magari, però ne ho delle altre…»

«Lo so, lo so … e non è detto che siano inferiori alle mie!...»

«… Sì, però danno ben più soddisfazione!»

L’orefice interruppe il dialogo con una gran risata, per avvicinarsi alla porta d’ingresso del negozio, socchiuderla e lasciare entrare l’aria: «La mia asma sta peggiorando… – disse poi scuotendo la testa sconsolato, mentre tornava al bancone – Sono andato anche da Murri, ma grandi benefici non ne ho mica avuti.»

Poi cambiò atteggiamento, diventando improvvisamente, ma ironicamente, serio: «Veniamo a noi e alla tua visita qui, caro Michele. Hai detto che devi far spese? Bene, bene… Devi fare un regalino a tua moglie, vero?»

«Non ne posso certamente fare a meno!»

«E hai fatto bene a venire da me! Mi sono arrivati proprio ieri dei gioielli splendidi. Adesso te li faccio vedere.»

Così dicendo, Coltelli aprì un cassetto del bancone, ne tolse alcuni vassoi in velluto blu su cui erano sistemati diversi gioielli, che poi mostrò ad uno ad uno all’amico (e cliente), vantandone le qualità ed il prestigio. Quando però ebbe a terminare la rassegna, all’improvviso si rabbuiò, e urlò con un tono fra l’irritato e il risentito: «Enrica, viene qui un attimo.»

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Una bella bolognese
in una foto d’epoca.

La ragazza che apparve sulla porta del retrobottega era una ventenne decisamente bella, per non dire avvenente: capelli nerissimi, ben raccolti sulla nuca ma che lasciavano intendere che una volta sciolti, sarebbero stati fluenti e lunghissimi; occhi grandi, anch’essi nerissimi, che lanciavano sguardi di un ammaliante scintillio; il viso perfettamente ovale faceva da corona a due labbra rosse quasi vivide, che contrastavano, rendendola più appariscente, con la carnagione bianca, pulita e carnosa delle guance.

«Questa è la mia “cuginetta” Enrica – disse l’orefice non senza un sorriso malizioso e pieno di sottintesi – che ospito qui da me per aiutarmi e per farmi da governante... è bravissima, la più brava fra tutte le cugine che ho mai avuto a servizio!»

«Conosco, conosco le tue “cuginette”, Camillo! Complimenti, una splendida parentela, la tua!»

L’orefice non sembrò dar peso alla frase di Paleotti, ma era oltremodo inorgoglito dal complimento che aveva fatto alla donna e, quindi, indirettamente anche a lui che l’aveva scelta.

«Enrica, saluta il signor Conte Paleotti, non essere timida! »

La ragazza fece un inchino un po’ goffo: «Signoria vostra illustrissima.»

Paleotti sorridendo le si avvicinò dandole un lieve cortese buffetto sulla guancia. L’orefice, però, interruppe la scena e rivolto ad Enrica le disse con un tono di voce alquanto sostenuto: «Non hai mica visto quel bracciale di diamanti e rubini ch’era assieme a questi gioielli?»

«Sì, Signor Coltelli, è nella cassaforte. L’ha riposto lì lei l’altro giorno, dopo averlo mostrato al Marchese Fantuzzi

L’orefice si diresse verso la cassaforte, ma fu fermato dal Conte: «Lascia perdere quel bracciale, Camillo! – disse con voce, se non irritata, quantomeno inasprita – Che figura mi vuoi far fare, rifilandomi quello che ha rifiutato un Fantuzzi? Fammi vedere qualcos’altro, dai.»

«Sì hai ragione, scusa, però tu dimmi almeno cosa vuoi regalare a tua moglie: un bracciale, un anello, una parure, un diadema, una collana…»

«Un anello mi piacerebbe molto: un bello smeraldo incastonato fra brillanti.»

«Ce l’ho! – proclamò soddisfatto Coltelli – Ed è davvero splendido e neppure troppo costoso!»

Così dicendo estrasse un altro vassoio su cui facevano mostra di sé una quindicina di anelli e iniziò a smuoverli delicatamente col dito, per cercare quello che aveva annunciato di avere. Ma non lo trovò e allora si rivolse di nuovo a Enrica: «E l’anello dov’è finito?»

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Un’antica orificeria Bolognese
(Veronesi – primi novecento ca.).

«Non lo so, signor Coltelli, non so neppure se l’ho mai visto. Forse l’avete venduto e non ve lo ricordate…»

«Vecchio e asmatico sì, ma tonto no, cara la mia “cuginetta”.»

Il sorriso dell’orefice, fino a quel momento lietamente ironico, si era all’improvviso trasformato in una smorfia amara e rassegnata.

«Camillo – gli disse Paleotti, quasi volesse interrompere il momento di tensione che si era venuto a creare – non posso mica stare qui delle ore. Fammi vedere quegli anelli, così ne prendo uno e la facciamo finita! Ho ben altro da fare, io!»

L’orefice gli avvicinò il vassoio con gli anelli, poi si rivolse ad Enrica con voce alquanto secca, seria e decisa: «Tu va sopra a fare le tue faccende, che poi chiudo bottega e vengo su anch’io, che facciamo quattro chiacchiere fra noi.»

Enrica si allontanò e appena fu scomparsa nel retrobottega l’orefice, abbassando la voce, sussurrò: «Da un po’ di tempo qualcuno mi fa fuori dei gioielli... e non riesco a capire chi possa essere…»

«Hai mai pensato che questa Enrica…»

«Sì, potrebbe essere, ma che convenienza avrebbe a rubare qui da me? Ha tutto da perdere, nessun gioiello gli renderebbe migliore la vita che fa.»

«Ma dove l’hai trovata quella nuova “cuginetta”?»

«L’ho incontrata allo chalet dei Giardini Margherita, ci siamo piaciuti, le ho proposto di farmi da governante in casa…. si fa per dire…. ha accettato, ed ora sta qui da me.»

«E come si chiama?»

«Enrica Zerbini.»

«Enrica Zerbini? – Paleotti spalancò gli occhi incredulo – Ma lo sai che è una puttanella da strada che è già stata denunciata per calunnia e ha già fatto due mesi di galera per truffa? Anzi sembra che nelle case in cui ha lavorato siano sempre scomparse delle cose di valore.»

«No, no, non è possibile! E tu come faresti a saperlo?»

«Me lo ha detto l’Avv. Serpieri… lo conosci anche tu… Lui l’aveva a servizio e l’ha denunciata per aver tentato di avvelenarlo. Dai Camillo, svegliati! Questa volta ti sei messo in casa non la solita “cuginetta”, ma una serpe velenosa!»

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